Come cane e gatto, [VM18] Jabura x Lucci

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Vegethia
view post Posted on 29/3/2017, 18:06 by: Vegethia
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The storm is approaching

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Rob Lucci

Più o meno mentre Hattori superava il centro storico di San Popula alla volta del quartiere Dorsoduro, Lucci raggiunse le scale principali in fondo al corridoio del reparto. O di ciò che rimaneva di esso.
Non fosse per le sedie a rotelle abbandonate lungo la via e per l'odore pungente del disinfettante, era difficile credere che quel posto fosse stato un ospedale fino a poche ore prima.
I tentacoli avevano invaso l'intero edificio: rami e viticci spessi come corde di canapa ricoprivano le pareti, le finestre e persino le attrezzature mediche, abbarbicandosi indistintamente su ogni tipo di superficie. La luce solare penetrava a sprazzi per scomparire in pochi secondi, soffocata dalla vegetazione, e per la maggior parte del tempo rimaneva una presenza evanescente dietro i vetri appannati.
Sembrava di camminare nel fitto di una giungla. E come se non avesse già rogne a sufficienza, superate le prime due rampe di scale, Lucci fu costretto a fermarsi.
Una piccola calca di persone formata da pazienti, medici e infermieri si era radunata sul pianerottolo del secondo piano e bisbigliava animatamente sulla strategia di fuga da adottare. Le scale dirette ai piani inferiori erano prese d'assedio dalle piante e l'oscurità non facilitava l'avanzata.
«Mantenete la calma! Mantenete la calma!!» ripeteva un ragazzo in camice bianco (forse un tirocinante dell'ospedale), più rivolto a sé stesso che ai presenti.
«Per l'amor del cielo, che stiamo aspettando?! Muoviti a scendere!» protestò un paziente.
«Se non ci sbrighiamo, finiremo tutti stritolati o avvelenati!» gli fece eco un altro.
«Signori, calmatevi!» Li riprese l'infermiera che aveva medicato e bendato Rob a puntino, la sera precedente. «Scenderemo uno alla volta, senza spingere. Non fate movimenti bruschi, non gridate, cercate di non calpestare i tentacoli e andrà tutto bene!»
Si levò qualche commento d'approvazione; poi il gruppo cominciò a muoversi, ma con lentezza esasperante agli occhi di Lucci.
Impaziente di uscire da quella specie di serra umida e afosa, l'ex leader del CP9 si affacciò dalla ringhiera: scavalcare sarebbe stato semplice, persino nelle sue condizioni, ma lo spazio era ristretto e senza usare il Geppo difficilmente avrebbe potuto evitare i tentacoli della creatura e raggiungere il primo piano illeso.
Stava per rassegnarsi all'idea di aspettare il suo turno come tutti gli altri, quando udì un tonfo. Poi un gemito. Infine un sussulto generale.
Il medico in capo al gruppo era inciampato e aveva ruzzolato per un metro buono sulle scale di granito, andando a sbattere contro qualcosa. Lucci vide i volti di chi gli stava attorno sbiancare all'istante. Pensò che lo spavento fosse scaturito dalla caduta del ragazzo, ma quando la luce baluginò sul fondo delle scale e illuminò per un attimo la gigantesca dionea con le fauci spalancate, si ricredette.
Aveva visto molte cose fuori dall'ordinario nelle missioni assegnategli dal Governo; una pianta carnivora di quelle dimensioni, però, non rientrava tra queste.
L'infermiera accanto a lui ebbe il buonsenso di portarsi le mani alla bocca per trattenere un grido.
Il giovane medico, di fronte alla creatura, non riuscì a fare lo stesso. Cacciò un urlo da fare gelare il sangue anche a chi non aveva ancora realizzato che cosa sbarrava la strada.
Come disturbati dal rumore, i tentacoli avviluppati alle scale fremettero tutti insieme. La bocca della dionea si spalancò ancor di più con un fruscio sinistro. La Regina di Primavera ghignava famelica nella fredda luce invernale.
Esplose il panico.
Il gruppo fece dietrofront, riversandosi freneticamente su per i gradini. Tutti urlavano e spingevano, inciampavano e si urtavano tra loro, mentre i tentacoli alimentavano il terrore, falciando l'aria e strisciando veloci sul pavimento per catturarli.
Lucci indietreggiò, seccato da quell'inutile trambusto che complicava solo la situazione. Peggio dei deboli sul campo di battaglia, si disse, c'erano solo gli stupidi privi di autocontrollo.
All'improvviso sentì incombere una minaccia dall'alto. Si voltò in tempo per vedere un grosso tentacolo che calava a frusta su di lui, velocissimo e oramai troppo vicino perché potesse schivarlo.
Usò il Soru.
La tecnica gli consentì di evitare l'attacco, ma gli ricordò anche che le sue gambe avevano ricevuto danni ingenti durante lo scontro con Cappello di Paglia.
Atterrò sulle ginocchia e digrignò i denti, più per la rabbia che per il dolore: come aveva fatto un maledetto ragazzino a conciarlo in quello stato?
Si costrinse a non pensarci. Non era il momento. Doveva restare concentrato e tirarsi fuori da lì; perché no, non si sarebbe lasciato sopraffare da nessun altro, umano o vegetale che fosse.
Rimettendosi in piedi a fatica, optò per tornare al reparto di riabilitazione –più silenzioso di quel secondo piano e quindi più sicuro da percorrere–, dove avrebbe cercato le scale antincendio.
Le fasciature gli impedivano i movimenti e amplificavano la temperatura, già di per sé elevata per colpa dell'umidità e dei condotti di aerazione completamente occlusi, ma era peggio dover fare i conti con un corpo che non rispondeva come doveva e che per ogni schivata un po' più rapida delle altre lo puniva con fitte acute e brucianti.

Arrivò in sala d'attesa zoppicando leggermente, i capelli incollati alle spalle sudate. Avrebbe voluto legarli per alleviare il caldo, ma non aveva i fermacoda, persi chissà dove tra le macerie di Enies Lobby.
Si diresse al portone d'ingresso del reparto e si accorse, non senza disappunto, che anche quello era stato fagocitato dalla pianta.
Se voleva passare, doveva liberarlo almeno in parte. Il problema era come: non poteva ripetere il Rankyaku –non se sperava di uscire dall'ospedale in piedi–, e aveva già visto come reagivano i tentacoli quando si cercava di districarli a mani nude.
Se solo avesse avuto qualcosa per...
Non finì nemmeno di pensarci che gli venne in aiuto la memoria visiva. Lucci si rivolse alla parete di fianco e la soluzione si palesò proprio lì, appesa al muro, con la sua testa d'acciaio laccata di rosso brillante.
Ruppe il vetro della teca e impugnò l'ascia di emergenza in un gesto talmente abitudinario che gli sembrò di non essersene mai veramente andato dai cantieri della Galley-La.
Tornò alla porta con gli occhi già puntati sulla serratura e abbatté la lama contro i tentacoli che la ostruivano. Il manico di legno gli scivolava tra i palmi insanguinati, ma quello non era certo un lavoro di precisione. Calò altri due o tre potenti fendenti tra le ante, ignorando i tentacoli mozzati che cadevano e si contorcevano per terra come code di lucertola.
Quando gli sembrò che potesse bastare, Lucci tirò la maniglia e accolse con sollievo il cigolio della porta che si apriva. Cominciava ad avvertire la stanchezza e, per la prima volta da quando si era svegliato dal coma, aveva fame. Non vedeva l'ora di andarsene.
Ma non era ancora finita, non per la Regina di San Popula.
Come Lucci varcò la soglia, un tentacolo si staccò dal maniglione antipanico e gli si serrò attorno al braccio che reggeva l'ascia. Era assurdo, perché si trattava pur sempre di una dannata pianta senza intelletto, ma dava proprio l'impressione di volersi vendicare per il torto subito, tirandolo con furia verso il portone.
Lucci oppose resistenza. Sentì le spine penetrare nella carne dell'avambraccio e allora usò l'altra mano per allentare la morsa.
Si liberò con uno strattone che lo sbilanciò all'indietro, e a poco servì chiedere l'ennesimo sforzo alle sue gambe: a terra era così scivoloso da sembrare opera del Paramisha di Califa.
Solo che alla fine, invece di cadere sul pavimento, Lucci finì con la schiena addosso a qualcosa di massiccio.
No, a qualcuno.
Si voltò di scatto per ritrovarsi davanti i contorni seghettati di una lunga cicatrice. L'aveva guardata così tante volte da vicino, durante certe risse da far tremare i muri del palazzo di Giustizia, che confonderla era impossibile e che da sola bastava a identificarne il proprietario.
«Che ci fai qui?» soffiò Lucci, distaccandosi in fretta da Jabura.
Odiò che fosse lui.
O forse no. Non del tutto, perché una minuscola parte di sé ora sapeva di poter contare su un'arma di gran lunga più efficace e distruttiva di un'ascia.
Anche se perfino quell'arma aveva visto giorni migliori, constatò Lucci guardando i lividi e le ferite sul torace scoperto del rivale.
 
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