Come cane e gatto, [VM18] Jabura x Lucci

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Yellow Canadair
view post Posted on 10/2/2017, 14:08 by: Yellow Canadair
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2rr1bft ~ Jabura

Nel quartiere Dorsoduro c’erano un sacco di case abbandonate.
Era una zona che era stata tirata su almeno duecento anni prima, quando San Popula non era che un villaggio, il treno marino non esisteva, Gold Roger non era nemmeno stato pensato e la vita era più lenta, più semplice.
Il quartiere Dorsoduro era stato il quartiere portuale dell’antica San Popula, e uscendo da vicoli stretti e bui si arrivava direttamente sul mare, sui moli, dove carpentieri inesperti, più falegnami che ingegneri, varavano piccole navi per portare la gente a Water Seven e San Faldo.
Poi San Popula aveva cominciato a cambiare, altri quartieri erano nati e, pian piano, la gente aveva abbandonato Dorsoduro e le case erano sorte attorno alla chiesa più grande e attorno al nuovo porto. Poi, più recentemente, di fianco al nuovo porto era stata costruita anche la stazione del Puffing Tom e per Dorsoduro era stato l’atto finale.
Adesso non vi abitavano che pochi anziani, che camminavano lenti tra i vicoli in cui erano nati e cresciuti, e guardavano con occhi mesti i palazzi e le chiese sconsacrate che costellavano il quartiere.
Sembrava un luogo abbastanza triste, eppure era in quella zona che sei poveri cristi scampati a un bombardamento avevano ritrovato una parvenza di tranquillità.
Una tranquillità incerta, sempre con l’incubo che qualcuno facesse la spia e li venisse a rastrellare, ma pur sempre tranquillità. Dorsoduro, proprio perché abitato soltanto da un centinaio di innocui anziani, non richiamava mai l’attenzione della Marina.

La notte in cui erano arrivati a San Popula, i ragazzi del CP9 erano sgattaiolati di vicolo in vicolo, di androne in androne, e infine avevano trovato riparo nella vecchia Cappella degli Accovati, una chiesa sconsacrata che sorgeva vicino al vecchio porto, un po’ nascosta da altre case.
Non era un grand’hotel, ma quando la sera, stanchi, attraversavano la navata centrale sotto lo sguardo sbiadito dei santi in corteo e s’infilavano nella canonica, erano contenti.
Avevano solo sei materassi, un tavolino sbilenco e un caminetto rimesso in funzione con tanta fatica da Kaku e da Blueno. In poche ore si erano impossessati di quel posto e avevano cominciato a chiamarlo “casa”, anche se non c’era nessuna delle comodità cui erano abituati.
I materassi li avevano rimediati da un robivecchi, le coperte le avevano rubate nella lavanderia dell’ospedale dove avevano lasciato Lucci (“rimborso spese”, aveva sentenziato Jabura), l’acqua la dovevano andare a prendere alla fontanella della piazzetta, nel cuore della notte per non farsi vedere. Non c’era privacy, e Califa si andava sempre a cambiare nei confessionali per non farsi vedere da nessuno.
Ma dopo aver lottato, essere stati sconfitti, aver vagato per mare e per terra, aver lavorato ed essersi umiliati sotto la pioggia, non c’era niente di più bello che tornare a casa.
A sera, per la stanchezza, Fukuro non ciarlava, Jabura non litigava, e Kumadori non tentava il suicidio. Si sentiva solo la risacca in lontananza e le stelle che tremavano nel cielo.

Jabura quella notte era stato di ronda. Aveva girovagato in tondo fra le navate della chiesa ascoltando il vento infilarsi tra le vetrate rotte, era uscito sul sagrato deserto, aveva annusato l’aria tra i vicoli completamente mutato in lupo. Niente. Tutto taceva a Dorsoduro. Era un compito noioso quanto necessario. L’agente sapeva benissimo che chiunque poteva riconoscerli, che chiunque poteva seguirli, che chiunque poteva fare la spia e mandare qualcuno ad arrestarli. La tranquillità di chi dormiva dipendeva dalla perizia di chi vegliava.
Era per quello che Jabura non si risparmiava quando era il suo turno, non toccava alcolici prima di montare la guardia e quando si accorgeva di morire di sonno cominciava a camminare, camminare, camminare. Sapeva che nessuno dei suoi compagni faceva diversamente. E la notte passava così, senza scossoni, cullati dalla pioggia e dal mare, e pian piano l’oscurità si diradava facendo strada alle mattine rosate di San Popula, col sole che emergeva dal mare e poi si nascondeva dietro alle basse nuvole grigie del tempo capriccioso.

Come una freccia scoccata dall’arciere, Hattori volava sopra i tetti umidi di San Popula, veloce, sempre più veloce, fino a dover chiudere gli occhietti per proteggersi dal freddo tagliente del mattino. Li apriva solo un attimo per controllare la rotta e poi via ancora più rapido, senza badare al vento che asciugava il sangue sulle sue piume bianche. Vedeva i tetti, vedeva il nastro lucido e grigio delle strade, vedeva i rampicanti che s’impossessavano voracemente di alberi, lampioni, uscivano dai tombini e stringevano, ghermivano, sfondavano. Stringeva gli occhi anche per non pensare a Rob Lucci che si faceva male solo per permettergli di scappare via. Ed ecco, finalmente, il quartiere della stazione scivolò via, dietro la coda, e anche la zona residenziale, via, via anche lei, e finalmente in lontananza ecco apparire Dorsoduro!
I rampicanti sembravano diminuire, ma Hattori sapeva che non c’era da fidarsi.

Mai a essere vivente delle case abbandonate e delle finestre nere furono sembrate più belle e splendenti! Hattori prese ancora più velocità e s’infilò nel vento, il rosone lercio della Cappella degli Accovati gli diede il benvenuto nel suo silenzio e il piccolo colombo si lanciò a tutta velocità sulla destra dell’abside dove, sapeva, c’era un’intercapedine che conduceva ai vecchi alloggi del parroco. Sbucò vicino all’armadio con i paramenti e poi fece irruzione nella canonica buia.
Ai suoi versi disperati fecero eco diversi mugolii.
Sì, Hattori lo sapeva, era presto, loro erano stanchi, ma non gl’importava nulla! Volò in cerchio sopra gli agenti addormentati, atterrò sul tavolo e rovesciò le bottiglie che c’erano sopra.
Jabura aprì un occhio, pigramente. Metà di lui era teneramente abbracciata a Gatherine, residuo di chissà che sogno, e voleva continuare a godersela finché riusciva. Si ficcò con la testa sotto la coperta, abbracciò meglio la donna (che in realtà era Fukuro) e continuò a ronfare.

Hattori volò in tondo sopra gli agenti, maledicendo la natura per avergli dato un verso così poco stridulo e decisamente inadeguato per svegliare le persone! Beccò la zazzeretta di Fukuro, zampettò furioso sul sedere di Kumadori, tirò i lunghi capelli di Jabura.
« Cazzo c’è!?! » si tirò su a sedere Jabura, alla fine. Fanculo, già era un miracolo gestire dei capelli così lunghi senza l’acqua corrente in casa, adesso ci si metteva pure quello stupido piccione? Maledetto lui e il suo padrone! Li tirò all’indietro e cercò di sistemarseli in una momentanea treccia, giusto per evitare che il diavoletto bianco li annodasse del tutto.
« Hattori! » fece irruzione Blueno nella stanza. Lui era di guardia in quel momento, e aveva notato il piccolo piccione, riconoscibilissimo nel piumaggio e unico nel cravattino, volare a missile sopra Dorsoduro. Hattori, sentendosi finalmente ascoltato, riprese il volo e svolazzò isterico davanti al naso dell’uomo, tubando furiosamente, poi tornò da Jabura.
Intanto Califa si era alzata, già perfettamente pettinata e aggiustandosi gli occhiali si era avvicinata con Kaku all’animaletto, vicino al materasso di Jabura, ancora seduto lì.
« Hattori! » invocò l’ex carpentiere. « Lucci? È successo qualcosa? »
Il colombino si voltò verso Kaku e questi dovette prenderlo al volo: Hattori aveva smesso di volare all’improvviso e si era afflosciato, esausto e angosciato, tra le sue mani. Scoppiò a piangere.
« Questo è sangue. » riconobbe subito il ragazzo. Le macchie ormai color ruggine spiccavano sulle piume candide.
« SANGUE! sangue giù dal vertice del capo, stillava e, lungo l'ossa, le carni, pari a lagrime di pino, scorrevano. Orrore era guardar- »
« È successo qualcosa all’ospedale. » capì Jabura.
Hattori era disperato: come far capire agli altri dei rampicanti, dell’ospedale sotto assedio, e le spine, e Lucci che l’aveva fatto scappare? Era bravo a comunicare, per essere un colombo, ma quelle erano cose troppo complicate!
Notò Jabura che lo guardava fisso e minaccioso. « Hattori. » lo richiamò. « Quel sangue è di quell’idiota di Lucci? »
Hattori lasciò perdere il gentile appellativo e si affrettò a muovere il capino su e giù. Sì! Sì!
« La Marina? L’ha scoperto? » si allarmò Califa.
No, no, niente Marina, negò Hattori.
« Va bene. » prese il controllo Jabura. « Non c’entra la Marina quindi non siamo stati scoperti. Califa. L’ora. »
« Sono esattamente le cinque e cinquantaquattro. »
« Non c’è nessuno in giro. Andiamo all’ospedale. Subito. »

Dall’alto del Geppo, gli agenti videro mano a mano sempre più tentacoli verdi che uscivano dai tombini, dalle fessure tra le mattonelle, dalle cassette delle lettere. Dove c’era un’aiuola, o un parchetto, era ormai una massa impraticabile di tentacoli che si erano aggranchiati agli edifici più vicini. Hattori volava in testa al gruppo, deciso a raggiungere il suo fedele amico e tallonato da Jabura, Kaku, e poi tutti gli altri.
« La situazione in città è degenerata. » gridò Kaku per sovrastare la velocità.
« L’area dell’ospedale è vicina al parco cittadino. » considerò Califa. « Non vorrei che- »
« FERMI! » gridò Jabura. « Hattori, fermo! »
Gli agenti si fermarono sul tetto della cattedrale, scivolarono un po’ sulle tegole umide e poi si bloccarono costernati a guardare verso il leggero colle sul quale sorgeva l’ospedale.

La Regina della Primavera si stava riprendendo San Popula. Le strade erano invase dai rampicanti e si levava una leggera nebbia umida. San Popula era diventata, da ridente cittadina, una giungla nebbiosa.
C’erano poche persone per le strade, alcune trasportavano grossi valigioni, altre emergevano dalle finestre e le serravano con assi di legno.
« Sembra che l’epicentro sia localizzato nel parco pubblico. » individuò Califa, guardando davanti a sé: oltre l’intrico di rami che era diventato il parco, si intravedeva la facciata dell’ospedale strizzata tra i tentacoli.
Hattori scalpitava per proseguire.
« Aspetta, non possiamo caricare a testa bassa… » lo chetò Kaku.
« Bisogna fare il giro. » risolse Jabura. « È inutile attraversare il parco, facciamo prima se aggiriamo la collina. »
A piedi sarebbe stato lungo, ma con il Geppo era più dirsi che farsi.

Ai piedi dell’ospedale il clima era di guerra: barellieri che correvano con le portantine trasportando degenti più o meno gravi, sedie a rotelle che sfrecciavano inseguite da rampicanti, infermieri bellicosi che li accolsero con un caloroso: “Ehi! Fuori dai piedi, ce la caviamo benissimo!” prima di essere trascinati via.
« Forse l’hanno già portato fuori… » ipotizzò Kaku, osservando Hattori che volava in cerchio nel tentativo di localizzare Rob Lucci tra le persone già evacuate.
« No! Abbiamo portato fuori i pazienti cominciando dalla pediatria, dalla terapia intensiva e dalle gestanti! » spiegò, con il fiatone, la corpulenta infermiera dalle calze a rete con la quale ormai avevano fatto amicizia. Le calze a rete erano un ricordo, il camice era sbrindellato e portava in braccio un bambino che sgranocchiava un tentacolo secco.
« Lucci è ancora dentro?! »
« Sì, gli ho detto di raggiungere le scale… gli ascensori sono fuori uso… e tu smettila, non puoi mangiare questa robaccia! » sgridò il bimbo.
« Blueno! » ringhiò Jabura. « Ti ricordi dov’è la stanza di Lucci? Fammi entrare lì. »
Kaku si calcò il berretto sugli occhi. « Lo portiamo fuori immediatamente. »
Qualcuno tubò con fare battagliero.
« Hattori, preferisco che tu rimanga fuori. » considerò infine Kaku. « È più sicuro. »
Hattori non era mica tanto d’accordo.
« Vuoi farlo preoccupare ancora di più? » sputò Jabura fulminando il colombino. Hattori si fermò a considerare quell’ipotesi, ma si vedeva che non gli andava giù neanche un po’. Jabura, dal canto suo, non aveva tempo da perdere facendo da baby sitter al piccione.

Le piante avevano infestato l’edificio, uscivano dalle prese di corrente, dai bocchettoni d’aria, persino dai macchinari e dagli armadietti, e formavano una foresta umida e minacciosa. Nella stanza che era stata occupata dal leader, il letto era divelto, la finestra serrata dai rampicanti e la porta scardinata. Sul muro, il taglio netto di un Rankyaku e un tentacolo avvizzito per terra.
Jabura si avvicinò al solco. Aveva un’esperienza pluridecennale, e sapeva benissimo che quel colpo non era minimamente paragonabile a quelli che scagliava il Rob Lucci che conosceva. “In via di dimissioni” forse, ma il bellimbusto era ancora ben lontano dal riprendersi del tutto; in condizioni normali, quella parete non ci sarebbe nemmeno stata più.
« Dividere il gruppo è doloroso ma necessario, bisogna ritrovare Rob Lucci prima possibile. » declamò Kumadori.
« No, non tutti. » lo fermò Kaku. « Blueno è l’unica possibilità che abbiamo per uscire da qui. »
« Ma sei scemo? Basta un Rankyaku fatto per bene e usciamo all’istante. » affermò Jabura calcando sul “per bene”.
« Farà crollare il palazzo, e se c’è ancora gente dentro indovina di chi sarà la colpa? Non siamo più agenti governativi, e comunque anche quando lo eravamo non potevamo fare stragi ingiustificate! » lo bacchettò Kaku.
« Chapapa… ogni tanto è successo… »
« Fukuro, chiuditi la zip! » ordinò Jabura.
« Abbandonata la stanza, Rob Lucci si sarà diretto verso le scale. » scandì Califa. « Quelle principali o le scale antincendio. »
« Allora facciamo così: cerchiamo un luogo che sia meno infestato, e lasciamo lì Blueno e due di noi per avere una via di fuga sicura dalle piante. » pianificò Jabura. « Credo potrebbe essere la zona del bar di questo piano, non è lontana e mi ricordo che c’era uno slargo abbastanza grande dove c’erano anche i tavolini. »
Il gruppo annuì e nessuno fece osservazioni sulla perizia di Jabura in materia di bar.
« Gli altri si dividono. Ognuno di noi è in grado di gestire una cazzo di pianta in autonomia, no? »
« Non fate movimenti bruschi. Usate il Soru. » ricordò a tutti Kaku. « E attenti ai baccelli velenosi. »
« “…sparano dardi avvelenati”, chapapa » recitò Fukuro, ricordandosi di quello che in città di diceva sempre di quei fiori.

Lasciato Blueno con Fukuro nella zona del bar, Kumadori, Califa, Kaku e Jabura si divisero per cercare il loro amico. Jabura stava percorrendo il terzo piano, potando qualche ramo che gli dava fastidio e litigando con infermieri e pazienti intrappolati che gli chiedevano se cortesemente potesse tirarli giù da dove la pianta li aveva legati.
L’umidità che portava quel vegetale stava diventando insopportabile, sembrava davvero di stare in qualche isola dal clima tropicale, e a momenti si rischiava persino di scivolare sul pavimento!
Aveva capito a sue spese che gridare per chiamare Lucci poteva essere fatale: la pianta ci sentiva benissimo e ogni volta che alzava la voce si ritrovava con qualche rampicante pericolosamente vicino al collo, e aveva definitivamente desistito quando la pianta gli aveva sparato contro dei dardi, che si erano conficcati nel muro alle sue spalle. Vegetale di merda! Con quale udito, poi?

Mai che quell’idiota di Rob Lucci se ne stesse fermo e calmo da qualche parte! La stanza non era compromessa, perché non era rimasto lì? E chissà in che condizioni stava! Hattori era sporco di sangue, pensò, ma il pavimento della stanza era pulito, quindi doveva essersi ferito da un’altra parte… e quale? Maledettissimo stupido gatto! Avevano faticato tanto per farlo rimettere in piedi!

Ad un tratto Jabura si fermò e annusò l’aria. Si mutò parzialmente in lupo per avere una percezione più chiara degli odori. Purtroppo gli ospedali, tra disinfettanti e solventi, avevano sempre combinazioni di odori molto forti, e questo svantaggiava l’agente (senza contare che lui di base era un uomo, non un animale), ma riusciva a carpire qualche dettaglio in più in forma animale. Si trovava in un corridoio del reparto di riabilitazione. All’improvviso sentì dei rumori sordi provenire dal fondo della corsia, come un martello che batteva, ma era improbabile che qualcuno si fosse messo a ristrutturare l’ospedale in quel momento.
Tornò umano, si tolse la camicia che ormai era fradicia di sudore, e si diresse verso la fonte del rumore stando attento a non fare movimenti troppo bruschi e a non scivolare sul bagnato.


Noticina: "Dorsoduro" è il nome di un sestriere di Venezia (tanto per rimanere in tema Water Seven, e ricordandomi che San Faldo è l'isola delle maschere), e si chiama così probabilmente perché sotto il terreno è molto compatto. Ho pensato che questo potrebbe aver rallentato la crescita della pianticella. Almeno per ora...
Noticina 2: Kumadori recita un verso della Medea di Euripide


Edited by Yellow Canadair - 15/2/2017, 15:58
 
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