Come cane e gatto, [VM18] Jabura x Lucci

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Vegethia
view post Posted on 31/12/2016, 16:12 by: Vegethia
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The storm is approaching

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Rob Lucci

C'era un confine molto sottile tra i sogni e i ricordi, nell'inconscio di Rob Lucci.
Da quando il buio lo aveva inghiottito, privandolo della consapevolezza di sé e di ciò che lo circondava, le immagini gli affioravano in mente come quadri astratti, sconnesse dal tempo e dallo spazio.
Talvolta vedeva posti in cui era stato: i cantieri della Galley-La coi loro massicci cancelli d'ingresso, lunghi e tortuosi canali d'acqua che si snodavano tra gli edifici svettanti di Water Seven.
Altre volte lo scenario si annebbiava, e si ritrova a fissare un mucchio di rovine, resti del passaggio del Buster Call, in cui stentava a riconoscere l'isola giudiziaria. Raramente, si presentava un'altra visione -la più singolare di tutte- in cui le onde del mare si muovevano sotto di lui e aveva quasi l'impressione di camminare sul pelo dell'acqua, senza che le sue gambe si muovessero.
Era come se una parte di lui fosse cosciente del coma, ma non per questo riuscisse a riconoscerne gli effetti. A discernere la memoria dall'immaginazione.

Poi, finalmente, aveva sentito i rumori.
Tintinnii lontani, che in breve tempo erano diventati rintocchi di campane. E versi, simili a richiami, che si erano rivelati cinguettii di uccelli.
E voci.
Voci pacate, per lo più di sconosciuti; ma anche sussurri che suonavano familiari, per quanto distorti e ovattati arrivassero alle sue orecchie.
Era frustrante non capirne il significato. Doppiamente frustrante non distinguerle, sapendo che in qualche modo avrebbe dovuto, ma quelle voci avevano rappresentato da subito una certezza. L'unica cosa che sapeva essere reale, in una pressoché totale alienazione dal mondo esterno.
Finché un giorno, fastidiosa come il torpore che gli attanagliava ogni fibra del corpo, Lucci non ne riconobbe chiaramente una: la voce che sperava sempre tacesse in sua presenza e che invece, per fargli dispetto, non taceva mai.
La voce di Jabura.
Blaterava cose che per lui avevano poco senso, rinfacciandogli presunte colpe.
E gli dava candidamente dello stronzo.
Prova a ripeterlo, cane bastardo sibilò Lucci, con l'intenzione di serrare i pugni e affidare a loro il resto del discorso, ma dalle sue labbra non uscì alcun suono e le sue dita si mossero appena sulle lenzuola.
Il corpo non rispondeva. Però, in compenso, l'udito funzionava benissimo e non gli risparmiava una sillaba dello sproloquio del collega.
Decisamente irritante.
Avvertì un movimento accanto alla sua testa e spostò gli occhi in quella direzione. Ancora buio.
Allora tentò di sollevare le palpebre, pesanti come macigni. Ci aveva provato altre volte, senza risultato (o forse aveva solo immaginato di farlo?), ma stavolta sarebbe stato diverso.
Non sarebbe rimasto in silenzio a farsi insultare dal primo degli idioti!
Volontà e indignazione la spuntarono sul buio.
Riapparve la luce, per un attimo così abbagliante da costringerlo a chiudere gli occhi e a riaprirli lentamente. Cominciarono ad emergere alcuni particolari di una stanza che non aveva mai visto e un piccolo profilo di colombo bianco, ritto alla sua destra, che avrebbe riconosciuto tra mille altri esemplari uguali.
Hattori lasciò la sua ciocca di capelli, tubò calorosamente e piegò la testa da un lato, gli occhietti che brillavano di gioia e ritrovata speranza. Lucci non vi si soffermò a lungo, rimandando a più tardi tutte le dovute attenzioni. Abbassò lo sguardo alla ricerca della fonte di disturbo e la trovò in piedi di fronte a sé, senza difficoltà, malgrado l'ostacolo visivo della mascherina dell'ossigeno.
Avrebbe avuto decine di domande da porre a quello scemo -dove si trovava, tanto per cominciare? Dov'erano gli altri? E che accidenti andava abbaiando su Califa e Kaku?-, e invece il suo primo pensiero fu: Te lo puoi scordare, di scalare quella classifica.
Perché le provocazioni di Jabura non sarebbero mai scivolate addosso a Rob Lucci, nemmeno con un piede nella fossa.
«Tu...» cominciò, la voce ridotta ad un mormorio soffocato sotto il respiratore «Rimani ancora il numero tre. Imbecille.»
Si sentiva già meglio dopo quella precisazione. Almeno per modo di dire, dal momento che se ne stava steso a letto con l'emicrania incalzante, l'arsura in bocca e gli arti insensibili dentro le fasciature. Dovevano averlo imbottito di farmaci negli ultimi giorni.
Gli venne da pensare a Spandam, la volta in cui Funkfleed, terrorizzato dalla vista di un topo, era sfuggito al suo controllo e gli aveva schiacciato la testa a muro come una nocciolina (e lui aveva sperato invano nel suo funerale).
Il paragone lo disgustò, ma gli fece anche tornare in mente le ultime parole di Jabura a proposito del direttore.
Mandargli i saluti...
Lucci contemplò il soffitto della piccola camera d'ospedale. Troppo piccola perché fosse una stanza offertagli dal Governo Mondiale.
Credeva di averlo solo sognato.
Credeva che quello che aveva ascoltato tra le rovine di Enies Lobby fosse solo un artefatto del coma, un pessimo scherzo del subconscio.
Ma ora vedeva la realtà.
Avevano fallito, e Spandam li aveva lasciati a morire sotto il fuoco dei cannoni.
Lucci deglutì per schiarirsi la voce. Gli sembrò di inghiottire un boccone ben più amaro del suo frutto del diavolo.
«...Quindi siamo fuori. Il CP9 è sciolto.»
 
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