Come cane e gatto, [VM18] Jabura x Lucci

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view post Posted on 22/4/2017, 22:03
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Rob Lucci

Accadde tutto così in fretta che Lucci riuscì a stento a seguire le mosse di Jabura, mentre riprendeva fiato e si strappava di dosso i resti inanimati del tentacolo.
Il collega non si era risparmiato col nemico, lo provavano il muro sfondato davanti a sé e il cimitero di vegetali avvizziti ai suoi piedi. Tuttavia, malgrado la Regina di Primavera stesse battendo in ritirata...
Qualcosa non andava.
Un presentimento che si mutò in certezza quando Jabura si rivolse nuovamente a Lucci: quell'aria tronfia, tutta tipica di lui, strideva spaventosamente col pallore del suo incarnato.

CITAZIONE
« Torniamo dagli altri, forza. »

Lucci lo vide crollare e scattò in avanti a sorreggerlo prima che potesse cadere.
Sentì il respiro di Jabura soffiare contro la sua spalla, lento e affannato, ma non certo per colpa della stanchezza. Ci voleva più che una sequenza complessa di Rokushiki per sfinirlo a quel modo!
Allora notò il sangue che scorreva sul pettorale destro del rivale, colandogli fino alla prima fila di addominali.
Si chinò lentamente e fece sedere Jabura per terra, con la schiena contro un tratto di parete ancora integra, poi s'inginocchiò davanti a lui.
«Ignorare l'effetto del veleno è da incoscienti...» Per non dire da stupidi. Cosa che non doveva sorprendere, visto il soggetto, ma Lucci fece lo sforzo di tenersi le considerazioni per sé. L'ultima cosa che serviva a quell'idiota era agitarsi ulteriormente.
Le sue pupille si dilatarono per catturare quanta più luce possibile, sfolgorando nella penombra. Vide così che il sangue sgorgava da una ferita aperta poco sotto la clavicola di Jabura, quasi perfettamente circolare e brunastra: c'era ancora del veleno lì, come si aspettava.
In quei secondi di silenzio, rotti solo dal respiro irregolare dell'altro, a Lucci pesò la mancanza del resto del gruppo. Perché nessuno di loro era medico, ma Kaku sapeva capire tante cose dal numero delle pulsazioni di un uomo. E Califa era sempre in possesso di informazioni utili, che Fukuro ogni tanto contribuiva a completare con qualche rivelazione di fortuna. E Kumadori e Blueno, beh, loro erano la soluzione ideale per una fuga rapida con trasporto di feriti compreso.
A completare il quadro, nessuno dei compagni detestava Jabura quanto lui. Di conseguenza, nessuno sarebbe stato più a disagio di lui nel fare ciò che stava, suo malgrado, pensando di fare.
Un'espressione tesa gli corrugò sguardo mentre esaminava il volto pallido e sudato che aveva di fronte.
Forse non sarebbe servito a niente. Forse quel veleno non era nemmeno letale, dopotutto, e Jabura se la sarebbe cavata con una paralisi passeggera.
Ma se così non fosse stato?
Non aveva la minima intenzione di restare con le mani in mano a scoprirlo, perché quel bastardo poteva scordarsi di crepare in un modo così idiota davanti ai suoi occhi –e dopo avergli salvato la vita per la seconda volta!
«Provo ad aspirare il veleno» lo informò in tono spiccio, a sottolineare che non stava chiedendo alcun consenso. «Stai fermo e, per il tuo interesse, vedi di non rendermi le cose ancora più difficili.»
Deciso a ignorare qualsiasi lamentela, Lucci si protese verso Jabura e posò le labbra sulla ferita, schiudendole appena oltre i suoi margini.
Un brivido gli corse lungo la schiena: che fosse in forma umana o no, Jabura restava pur sempre un lupo, la sua antitesi, e ogni cellula del suo corpo modificata dal Felis felis sembrava volerglielo ricordare.
Ignorando anche le proteste del proprio istinto, con una mano sul muro e l'altra sul fianco sinistro di Jabura, Lucci cominciò a succhiare.
Il sapore ferroso del sangue gli si spanse subito in bocca, mischiato a quello acre e amaro del veleno. Lo sputò per terra, consapevole che ingerire la tossina poteva essere rischioso anche per lui, e ripeté l'operazione. Si fermò non appena riconobbe sulla lingua solo il gusto dolciastro (e non poi così sgradevole, non per uno Zoo zoo carnivoro) del sangue.
Si pulì le labbra sul dorso di una mano, staccandosi dal rivale. Gli pareva rigido come un pezzo di legno, ma era difficile stabilire se quell'imbecille fosse paralizzato per la pianta o perché lui gli aveva appena stampato un succhiotto in piena regola.
Il pensiero lo riempì di vergogna mista a irritazione. Una cosa del genere, fino a cinque anni prima, non l'avrebbe neanche concepita: tutto merito delle stronzate da ubriachi di Pauly, Lulu, e degli altri carpentieri della Galley-La!
Distolse lo sguardo per puntarlo verso il corridoio deserto. La suzione poteva essere stata utile a guadagnare tempo, ma in parte il veleno era già in circolo; il problema era tutt'altro che risolto.
«Dobbiamo trovare un medico, per l'antidoto.» Sapeva che far muovere Jabura nelle sue condizioni era la cosa più sbagliata, ma lasciarlo solo, col rischio che quel dannato vegetale tornasse a completare il lavoro, non gli sembrava una prospettiva tanto migliore. «Riesci a camminare?»


E tu lascia che collassi. Sopra Lucci :shifty:
 
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view post Posted on 23/4/2017, 23:05
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CITAZIONE
«Ignorare l'effetto del veleno è da incoscienti...»

Tuo nonno, i tuoi zii, tuo padre, i tuoi fratelli e quella grandissima zoccola di tua madre!, pensò Jabura.

Non si perdonava il fatto di non essere riuscito a resistere al veleno, ma almeno quell’alzato di culo aveva avuto la decenza di prenderlo al volo. Dominare le emozioni e liberare la mente era routine, per lui, ma ignorare il fatto che sentisse il suo corpo andare a fuoco (di nuovo!!) era un’altra cosa.

Era una sensazione tremenda, voleva muoversi, voleva camminare, trascinare fuori Lucci per i capelli e tornare a casa, e invece non si sentiva nemmeno le mani e i piedi. La pochissima luce non faceva che accrescere il senso di impotenza, l’aria umida e pesante lo faceva sudare e tremare.

Dominio delle emozioni, non ti distrarre.

Il collega fece una cosa sensata, lo fece sedere per terra: sentire il pavimento sotto il culo lo rassicurò vagamente.
E adesso?
Non riusciva a parlare, il fiato non raggiungeva la gola.

Intuì nella semioscurità Lucci andare un po’ avanti e indietro, scrutare il buco lasciato dalla pianta nel suo torace e innervosirsi.

Oh, no.
Non ci pensare neanche.


Il metodo più basico e più barbarico per estrarre il veleno lo conosceva anche Jabura.

Non lo fa, non lo fa.

Il cervello urlava per la mancanza di ossigeno. Si sentiva le forze scivolare via… l’aria era poca.
Lucci si inginocchiò davanti a lui e gli mise una mano sul fianco.
Era bollente, mentre lui tra i brividi andava a fuoco.

CITAZIONE
«Provo ad aspirare il veleno»

Jabura riuscì a muovere la testa in un disperato: “NO”.

Lo fa, lo fa!!!

Serrò gli occhi e si concentrò sul rivolo di aria che fece fluire lentamente dal corpo. Cercò di visualizzare su qualcosa che non fosse la faccia di corna del collega, ma era difficile.

Che schifo, che vergogna. Erano soli? Sicuro che erano soli? Meno male che Fukuro era fermo al bar, e non rischiava di comparire all’improvviso!

Sentì le labbra bollenti del rivale sulla pelle nuda e sudata, e vederlo calmo e concentrato sul suo petto era… innaturale! Era contronatura, demoniaco, era… aria. L’aria stava finendo…
Stava perdendo la cognizione del suo corpo, avvertì. Sentiva a mala pena la mano sul fianco.

TOGLILA SUBITO.

Le labbra di Lucci si staccarono per sputare il sangue e il veleno, e Jabura usò quei pochi secondi per smorzare la tensione, concentrandosi anche se la testa scoppiava, stava sudando freddo e l’aria era sempre di meno.

Maledetta pianta del cazzo, nessuno dei suoi avversari aveva mai avuto il coraggio di ridurlo così! Avrebbe dato fuoco a tutto, una volta uscito da quella…

L’aria mancò all’improvviso, Jabura strinse convulsamente una mano attorno al polso di Lucci.

Piano. Piano cazzo. Respira. Respira piano.

Lucci riprese a succhiare.
Jabura sentì la pressione sui polmoni affievolirsi. Pochissimo, troppo poco, ma riuscì a mandare un po’ d’aria alla testa quel tanto che bastava per non svenire.

Lo storico rivale si staccò all’improvviso, Jabura gli lasciò schifato il polso.

Si sentiva debole. QUANTO SANGUE GLI AVEVA LEVATO, QUEL GATTO DI MERDA? ERA SANGUE, MICA BIRRA ALLA SPINA!

CITAZIONE
«Riesci a camminare?»

PURE?!?
Si sentiva di marmo, freddo e pesante. Il sudore era una coperta di ghiaccio che lo avvolgeva morbosamente, si pentì di non avere più la maglia. Tentò di staccarsi dalla parete cui era appoggiato. La lingua in bocca era come un pezzo di carta vetrata, aveva sete.

No che non ci riesco, cazzo!

« Certo. » soffiò fuori, quasi sorprendendosi di essere riuscito ad articolare la risposta. Il veleno era bello che in circolo, le gambe non volevano saperne.
E vedi se quell’idiota dava una mano! Ma lo vedeva o no che non riusciva a muoversi? Se ne stava impalato a puntare la porta, accovacciato davanti a lui, ma mica si degnava di finire il lavoro! Cos’è? Fine della beneficienza?

La pianta intanto, tra i tubi nei muri e sotto le mattonelle, strisciava umida preparando la sua vendetta. A Jabura pareva di percepire la sua viscida essenza contorcersi tra i muri sbriciolati dell’edificio pericolante.

« Senti… » sussurrò « Devi uscire… fuori ci sono i medici… » ringhiò ansimando. Il petto non si apriva a sufficienza.

Si immobilizzò. Captò delle voci. « Arrivan… »

Cercò di mutarsi in forma ibrida, ma il corpo si ribellò allo sforzo, l’aria mancò all’improvviso, come un pavimento che cede sotto i piedi, e Jabura franò in avanti.
 
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view post Posted on 3/5/2017, 18:19
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Rob Lucci

La voce di Jabura era spezzata dagli ansimi, ma Lucci non realizzò quanto critiche fossero le sue condizioni finché non lo sentì crollare su di sè.
«Jabura.» Sussultò. Non lo sentiva respirare.
Lo agguantò di nuovo per le spalle, riportandolo in posizione eretta. Aveva lo sguardo vigile, ma il suo corpo era freddo e pesante come un involucro svuotato di ogni energia. Il suo torace si muoveva a stento: la paralisi doveva essere già molto estesa.
«Sei un idiota...» mormorò in un sibilo iroso.
Non aveva appena finito di chiedergli –e più cortesemente di quanto meritasse– se poteva camminare? Era tanto difficile rispondere di no, evitandosi sforzi inutili?
Domande retoriche.
Pur di preservare il suo orgoglio e di atteggiarsi a maschio alfa, quello scemo si sarebbe sul serio fatto avvelenare a morte!
Lucci sbuffò a denti stretti e si voltò verso l'uscita, dandogli la schiena. Si ritrovò a pensare a quante volte, da bambino, gli aveva augurato di farsi ammazzare dopo una lite particolarmente accesa, quando ancora non vivevano nemmeno ad Enies Lobby. Decine, forse anche centinaia. Eppure, adesso odiava vederlo così prostrato dagli effetti del veleno.
«Non è esattamente così che speravo ti levassi dai piedi» considerò ad alta voce, prendendogli entrambe le braccia e stringendosele al collo. «Da qui in poi ci penso io, tu pensa a risparmiare il fiato.»
Si alzò sollevando con sé anche Jabura e si inclinò in avanti per caricarlo sulle spalle. Non fu propriamente facile: dopo la camminata fino al secondo piano e le Rokushiki impiegate per uscirne illeso, Lucci si sentiva le gambe a pezzi; settanta chili o più di muscoli a gravare sulla schiena non gli semplificavano le cose.
Una volta in piedi, usò entrambe le mani per sostenere Jabura da sotto le ginocchia e mosse qualche passo incerto verso l'uscita. Non sentendo la presa per niente stabile, risvegliò in piccola parte i poteri del suo frutto del diavolo e avvolse la coda felina attorno alla vita del collega, allacciandola alla propria.
Un nuovo brivido gli risalì le vertebre. Quel contatto, quell'odore, quel respiro sulla pelle... era tutto profondamente sbagliato e quanto mai disdicevole, ma Lucci mise a tacere ognuna di quelle sensazioni. Non poteva permettersi di distrarsi. Si concedeva solo di sperare: sperare di trovare Kaku o Kumadori nel corridoio, scaricargli quel dannato cane troppo cresciuto e correre a cercare un medico all'esterno dell'edificio.

Le sue speranze non trovarono soddisfazione, se non in minima parte. Oltrepassata la soglia, Lucci si ritrovò in un corridoio altrettanto umido, infestato dalle piante e solo poco più illuminato degli altri. Sentiva una voce, ma abbastanza chiaramente da capire che non apparteneva a nessuno dei suoi compagni.
Andò in quella direzione, ansimando per il caldo e la fatica. Svoltò il primo angolo e alzò gli occhi: un uomo penzolava dal soffitto, stretto dallo spinoso abbraccio della Regina di Primavera. Non sembrava ferito né sofferente, ma il particolare più rilevante per Lucci era il camice che indossava e che spiccava bianchissimo tra i rovi violacei.
«Buon Dio!» esclamò quello per la sorpresa, vedendoli arrivare. «Finalmente qualcuno mi ha sentito!»
«Lei è un medico?» chiese Lucci distaccato.
«Sì! Mi dirigevo alle scale, quando la Regina mi ha...» L'uomo s'interruppe. Aveva notato le fasciature di Lucci e, soprattutto, Jabura apparentemente svenuto sulle sue spalle. «Che cosa è successo?»
Lucci diede al rivale un'occhiata fugace. Aveva il volto cereo. «È stato colpito da un dardo avvelenato.»
«Respira ancora?»
«Certo che respira!» sbottò Rob. Quel tizio non aveva idea di con chi stesse parlando. Loro erano gente fuori dal comune, con una resistenza fuori dal comune!
Guardò i tentacoli che imprigionavano il medico, aggrovigliati in una matassa fitta e disordinata, e fece per adagiare di nuovo Jabura a terra. «La tiro giù di lì...»
Ma l'uomo scosse la testa. «No, lasci perdere. Se ci prova, cercherà di catturare anche voi e non avete tempo da perdere. Il veleno induce in pochi minuti la paralisi dei muscoli respiratori, il suo amico rischia di morire per asfissia. Deve somministrargli l'antidoto al più presto!»
Lucci riconobbe che aveva ragione e, allo stesso tempo, ebbe l'inquietante conferma che una manciata di minuti potevano fare la differenza tra la vita e la morte per Jabura.
Puntò il portone in fondo alla via e riprese a camminare.
«Aspetti! Dove va?»
«Fuori. Ci sono suoi colleghi, chiederò a loro l'antidoto» rispose Lucci senza fermarsi e, giusto per non rischiare una denuncia per omissione di soccorso, aggiunse «Manderò qualcuno ad aiutarla.»
Silenzio.
Pensò che la conversazione fosse conclusa, e invece, dopo pochi secondi, il medico parlò di nuovo: «Ascolti, anche da quella parte il percorso è accidentato, ci metterebbe troppo tempo così...» Forse aveva notato che zoppicava. «Ma c'è un'altra soluzione! Proprio dopo questo reparto ci sono gli ambulatori. Il secondo sulla destra è quello dell'anestesista: lì troverà di sicuro il farmaco che le serve.»
Lucci si fermò. Una ciocca di capelli gli s'incollò alle labbra, sospinta leggermente dal respiro affannoso. Le braccia gli si erano di nuovo indolenzite come dopo il risveglio dal coma, ma lui rinsaldò lo stesso la presa su Jabura.
Valutò le due opzioni: tentare di raggiungere gli altri nell'area bar, considerando possibili imprevisti e rallentamenti lungo la strada, o cercare l'antidoto subito, tenendo in conto la sua pressoché totale mancanza d'esperienza con aghi e siringhe?
Fu il petto di Jabura che si allargava poco, troppo poco contro la sua schiena a suggerirgli la risposta.
«Cosa devo cercare, di preciso?» fece rivolto al medico.
 
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view post Posted on 10/5/2017, 23:54
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2rr1bft ~ Jabura

Jabura decise di rimandare ogni insulto, ogni pensiero superfluo, ogni rancore verso il gatto idrofobo: la priorità era respirare.

Rimanere in vita.

Smise di combattere contro un corpo che non rispondeva, arginò l'idea di essere sulle spalle di Lucci, evitò di pensare che quell’idiota si stava uccidendo per portarlo fuori.

Cazzo, se muore per salvarmi Kaku mi ammazza.

Cercò di ricordare antichissime lezioni sul corpo umano e immaginò l’aria, ridotta a un piccolo fiume di bolle minuscole, che entrava e usciva dai suoi polmoni. Piano. Piano piano entrava, piano piano usciva.

Il passo di Lucci era irregolare, lo sentiva cedere e subito dopo andare avanti.

Vai piano, idiota, se crepi noi poi come facciamo?
Se muori tu, muoio pure io.


Jabura dispensava morte da vent’anni, eppure non l’aveva mai vista da così vicino. Era fredda.

Era buia.

Per un istante pensò che la pianta avesse tappato ogni singolo spiraglio di luce, poi con terrore capì: il veleno era in fase così avanzata che non si era nemmeno accorto di aver chiuso gli occhi.

Cazzo.

Lucci, CAZZO, non fermarti a parlare!


CITAZIONE
« Il veleno induce in pochi minuti la paralisi dei muscoli respiratori, il suo amico rischia di morire per asfissia. Deve somministrargli l'antidoto al più presto! »

disse la voce che non conosceva.

Merda, merda, merda! Era questo che stava succedendo?

Jabura decise che non sarebbe andato in panico, pensò alle bollicine: entravano, uscivano. Entravano, uscivano. Entrate, maledette bollicine che non valete la schiuma di sudore dei cavalli, ENTRATE. ENTRATE.

CITAZIONE
« Cosa devo cercare, di preciso? »

Ottima decisione, gattastro. Se l’antidoto era vicino, forse ce l’avrebbe fatta.
Entrate, piccole stupide bollicine.

Bastava una siringa di antidoto, pensò Jabura. Sperò che il collega avrebbe avuto la presenza di spirito di iniettarglielo nel collo, o ovunque sarebbe andato rapidamente in circolo.

Uscite, bollicine del cazzo, uscite. Ma non troppo in fretta!

Persino un coglione come Lucci ce la poteva fare, con l’ago: doveva solo infilarglielo dentro e spingere fino in fondo.

Che doppio senso squallido…

Bollicine…? Dove siete?

Ma vedi se mi tocca morire con certe immagini in mente, sorrise amaro dentro di sé Jabura, ormai troppo stanco persino per imprecare.

Edited by Yellow Canadair - 11/5/2017, 22:28
 
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Rob Lucci

«Cerchi una fiala di eserina. È piccola e allungata, col tappo argentato... Ne basta un millilitro, non ecceda con la dose... Farà effetto in pochi minuti.»
Con le ultime raccomandazioni del medico impresse in mente, Lucci raggiunse il corridoio degli ambulatori appena dopo il reparto di riabilitazione.
Camminava spedito, gli occhi inchiodati al pavimento e le orecchie sorde ai rumori di sottofondo, talmente concentrato da non avvertire più la fatica.
Non poteva permettersi errori, lo sapeva. Sbagliare adesso, calpestando inavvertitamente un tentacolo, significava perdere tempo; perdere tempo significava morire per il bastardo semiagonizzante sulle sue spalle. Un'idea che, in definitiva, lo urtava più della stessa esistenza di Jabura.
Si accostò alla porta del secondo ambulatorio, la spinse con un gomito ed entrò.

La stanza appartenuta all'anestesista sembrava il teatro di una sequela di atti vandalici e puzzava di sostanze chimiche, ma perlomeno non era più sotto assedio della pianta.
Al centro, accanto ad alcune apparecchiature rovesciate, c'era una lettiga. Lucci vi sistemò sopra Jabura in modo che le sue spalle poggiassero contro lo schienale rialzato. Gli sembrò di maneggiare un sacco vuoto. E come se ciò non fosse abbastanza allarmante, considerato che il lupastro aveva fatto del Tekkai la sua specialità, si accorse anche di non avere alcuno sguardo con cui interloquire.
Jabura aveva gli occhi chiusi.
Da quanto li aveva chiusi?
Lucci protese una mano verso il suo collo, in automatico... e la fermò bruscamente a mezz'aria.
Non serve. Inutile perdere altro tempo.
Non ammise a se stesso che a fermarlo era stato il rigetto immediato delle sue intenzioni. Jabura poteva essere un insopportabile bastardo, ma non sarebbe mai stato uno dei tanti bastardi di cui accertare il decesso a fine lavoro.
«Ci siamo quasi. Vado a cercare l'antidoto» lo informò, dirigendosi verso l'armadietto dei medicinali. Ricordava il buio del coma, la frustrazione di non poter interagire con ciò che lo circondava, e conosceva fin troppo bene il sollievo che una voce era in grado di dare in quei frangenti.
Aprì lo sportello lasciandoci sopra ditate di sangue. Allora fu chiaro perché il medico non si fosse solo limitato a nominare il farmaco che gli serviva: le due mensole dell'armadietto erano stracolme di fiale e flaconi che a primo impatto, persino in condizioni di luce ottimali, sarebbero parse tutte identiche.
Lucci prese a frugare tra le bottiglie, escludendo subito quelle più grandi. La sua mente era lucida e grazie al suo Zoo Zoo poteva leggere le etichette anche al buio, ma le mani tradivano tutta la fretta e la stanchezza accumulata.
Alla fine, quando in lui stava cominciando ad insinuarsi il timore che l'antidoto non ci fosse, vide la boccetta col tappo argentato stipata in fondo.
Eserina diceva l'inchiostro sbavato su di un fianco. La tirò fuori, facendo ruzzolare le altre fiale senza sentirne nemmeno lo schiocco del vetro che si rompeva cadendo a terra; poi riprese la ricerca. Trovò una confezione di siringhe quasi intera dentro uno dei cassetti sotto gli sportelli, accanto alle garze di cotone e agli aghi sterili. All'ospedale di San Popula non si faceva beneficenza, ma se non altro si sapeva come lavorare, appurò Lucci.
Preparò la siringa per l'iniezione con la tecnica che aveva visto usare alle infermiere nei giorni precedenti, quindi tornò da Jabura.
«Se ne hai ancora la forza» disse, prendendogli il mento tra due dita e spostandogli la testa dall'altra parte «questo è il momento buono per fare i tuoi scongiuri.»
Piantò l'ago nel collo del rivale con un movimento rapido e deciso. Poi, lentamente, spinse lo stantuffo.
Si concentrò sul liquido che spariva dal cilindro di vetro, tacca dopo tacca, e finiva da qualche parte dentro i tessuti.
Ci vollero solo pochi secondi. Pochi secondi assurdamente lunghi in cui Lucci si sforzò di non pensare che era addestrato per uccidere, non per salvare vite umane.
Quando lo stantuffo toccò il fondo, estrasse la siringa e la lasciò cadere a terra. Guardò ancora il volto di Jabura, così strano e innaturale nella sua totale mancanza d'espressione. Lo infastidiva.
Pazzesco: qualunque cosa facesse o non facesse quell'uomo, il risultato era il medesimo!
Decise che non sarebbe rimasto a fissarlo in attesa che si svegliasse.
Si spostò sul lato sinistro della stanza, cercando un posto per sedersi, e notò un'altra porta. Era solo accostata e oltre il legno verniciato di bianco si scorgeva un lavandino. Vedendolo, Lucci si rese conto di avere una sete tremenda. E se ne aveva lui, che aveva per lo più camminato a passo d'uomo in quei corridoi soffocanti, quell'altro doveva essersi come minimo prosciugato, dopo le prodezze contro il vegetale e l'avvelenamento.
Non dovette riflettere molto sul da farsi.
Un minuto più tardi, Lucci uscì dal bagno con le mani bagnate e un bicchiere (ricavato da un barattolo di pastiglie vuoto) pieno di acqua tra le dita. Si avvicinò a Jabura. Memore dei risultati del suo Certo che riesco a camminare, glielo portò direttamente alle labbra: «Bevi.»
 
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view post Posted on 3/7/2017, 19:58
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Furono i polmoni, un millimetro alla volta, a riconquistarsi il loro spazio: si dilatarono piano, spinsero delicatamente contro le costole, e poi riuscirono a gonfiare l'ampia cassa toracica, e a Jabura sembrò di riemergere dopo una lunga immersione, di tornare a vedere la luce dopo aver fissato troppo a lungo l’abisso, anche se erano passati tanti anni dall’ultima volta che aveva fatto un tuffo in mare, da bambino, e non poteva dire di ricordarselo molto bene.

L’aria gli tornò tra le fauci, così desiderata che gli sembrò di poterla addentare. Era calda e insopportabilmente umida, ma era aria, e tanto bastava. Si sentiva i muscoli indolenziti e la pelle nuda era sudata, azzeccata schifosamente alla plastica del materassino, ma avvertire quelle sensazioni, per quanto spiacevoli, era una notizia meravigliosa. Il cuore stava pompando di nuovo a piena forza, il sangue scorreva impetuoso e ardente. ...e sentiva freddo, cosa assurda considerando la temperatura opprimente della stanza.

La prima cosa che Jabura provò a fare fu flettere le dita dei piedi: tutto a posto; rispondevano, niente lesioni alla spina dorsale. Non doveva aver preso botte, mentre era incosciente, ma vai a sapere quel coglione di Lucci cosa…

Lucci.
L’ospedale. La pianta. Cazzo!
All’improvviso sentì qualcosa di duro e umido premergli sulle labbra.
A fatica schiuse gli occhi, aprendoli di una fessura.

Sospirò di sollievo. Kaku non l’avrebbe ammazzato: l’imbecille era ancora vivo. Con una pessima cera, con i capelli sudici e sudati davanti al muso, le bende sporche di sangue, ma era vivo.
Sentì l’odore dell’acqua. Lucci gli stava dando da bere, l’oggetto che premeva contro le labbra era una specie di barattolo.
Non si sarebbe fatto imboccare, da nessuno, mai, in nessun caso, nemmeno con le mani mozze: mosse il braccio destro (sentì la gioia del poter di nuovo avere il controllo su tutto il suo corpo) e afferrò il bicchiere da solo, completando l’azione che gli aveva suggerito il compagno.
Bevve piano, senza smettere di fissare l’avversario, come se si aspettasse qualche colpo basso che bilanciasse l’offerta.
Che non arrivò. Lucci l’aveva semplicemente aiutato.
“Salvato”, si corresse.
Beh, era ora! Lui lo stava salvando da quando erano stati licenziati a Enies Lobby! Non aveva ancora sentito un grazie!

« La pausa è finita » disse stanco, pulendosi le labbra e i baffi con il dorso della mano « adesso ti porto fuori da qui » promise, senza riuscire a nascondere un sogghigno.
Lasciò l’ultimo sorso per Lucci, e gli ripassò il barattolo. Cercò di alzarsi, rimettendosi a sedere sulla brandina. Maledizione, gli girava la testa. E per di più aveva il collo indolenzito. Cazzo, non poteva permettersi di fare il cadavere adesso!! Dovevano assolutamente uscire, e l’unica speranza per entrambi era lui. Strinse i denti e si dette la spinta con gli addominali per saltare giù dalla brandina; per fortuna non era molto alta, e lui un ragazzo atletico.

Intanto, una debole e curiosa pianticella aveva notato (con quali occhi non ci è dato di saperlo) il comportamento dei due uomini. Erano carini l’uno con l’altro. Però a quanto pare non erano docili come i dottori e gli altri pazienti: se notavano troppi rami muoversi, si difendevano invece di scappare, e si difendevano fin troppo bene per i gusti della pianta.

Curiosa, decise di usare il suo tatto per scoprire com’erano fatti i corpi di quei due individui, così diversi dalle fisicità rotonde e morbide dei medici che aveva molestato fino ad allora. Strisciando tra le macerie e sotto il pavimento arrivò, non vista, proprio sotto alla barella dalla quale Jabura stava scendendo in quel momento. Si avvolse a una delle gambe di metallo della branda, in silenzio, e strisciò proprio al di sotto del materassino.

Edited by Yellow Canadair - 3/7/2017, 22:11
 
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Rob Lucci

Sostenendo lo sguardo di Jabura, Lucci fu attraversato da un insieme di emozioni contrastanti. Tra tutte, spiccò per prima l'irritazione: perché quell'emergenza lo aveva messo in difficoltà, perché l'aveva obbligato a fare cose che non avrebbe fatto neanche sotto tortura (e non pensava all'iniezione di eserina, no di certo); ma soprattutto perché, mentre una minuscola parte di lui realizzava solo ora di essersi quasi preoccupata per quel bastardo, il bastardo in questione continuava a fissarlo in cagnesco, come se invece di salvargli la vita avesse appena tentato di ucciderlo nel sonno.
Tuttavia, sopraggiunse anche il sollievo. La paralisi andava svanendo a vista d'occhio e Lucci valutò che se il lupastro era ancora capace di covare lucida ostilità nei suoi confronti, non doveva aver provocato danni permanenti.
L'antidoto aveva funzionato, aveva fatto in tempo.

CITAZIONE
« La pausa è finita, adesso ti porto fuori da qui »

Prese il bicchiere improvvisato che Jabura gli porgeva e lo vuotò, bevendo la poca acqua rimanente.
Mi porti fuori di qui...
Considerando che fino a quel momento era stato lui a portarlo –nel senso letterale del termine– a spasso per quel maledetto ospedale, suonava quasi ironico, ma Lucci non era in vena di spirito e non aveva voglia di attaccare briga. Un senso di spossatezza generale si andava impadronendo del suo corpo, nuovi formicolii gli artigliavano gambe e braccia, e le fitte in corrispondenza delle suture si facevano sempre più intense. La stanchezza era infine arrivata a presentargli il conto, calandogli addosso come una pesante cappa di piombo.
Voleva uscire da lì. Doveva uscire da lì, fintanto che l'adrenalina lo sosteneva.
Voleva uscire però anche per un'altra ragione, che non lo toccava in prima persona.
Lucci osservò il rivale mentre saltava giù dalla brandina a denti stretti.
...Jabura aveva bisogno di un medico.
Detestava ammetterlo, e niente e nessuno glielo avrebbe scucito di bocca, ma date le sue condizioni e quelle in cui aveva trovato Kaku il pomeriggio prima, al momento il lupo rappresentava il pilastro portante per la sicurezza del gruppo. Era indispensabile che rimanesse in piedi.
«Non ti agitare, ti è già andata di lusso una volta.»
Si girò in direzione della porta. Lo stipite bianco ondeggiò per un attimo, distorcendosi fino a diventare un'immagine doppia.
Lucci chiuse le palpebre, le riaprì stancamente e costrinse la vista a rimettere a fuoco l'ambiente. «Il bar è nell'ala opposta, dobbiamo tornare indietro.»

Ma la Regina di Primavera non aveva alcuna intenzione di lasciare andare i suoi ospiti senza essersi tolta lo sfizio di saggiarne le fattezze.
Col suo tentacolo scivolò fuori dal materassino, dove incontrò il fondoschiena sodo e ben modellato di Jabura. Fremette, forse percependo il calore della pelle sotto i vestiti, e percorse rapida il suo gluteo sinistro, avviluppandosi intorno alla piega dell'inguine.

Edited by Vegethia - 15/7/2017, 00:47
 
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2rr1bft ~ Jabura

CITAZIONE
«Non ti agitare, ti è già andata di lusso una volta.»

Ci puoi giurare, pensò Jabura.
Stava saltando giù dalla brandina, quando qualcosa lo trattenne per la gamba, ed era pure pericolosamente vicino ai gioielli. Si voltò a guardarsi addosso: il pantalone di tuta doveva essersi impigliato in qualche…

CITAZIONE
«Il bar è nell'ala opposta, dobbiamo tornare indietro.»

Jabura divenne più bianco delle pareti e sbarrò gli occhi nell'oscurità.

Merda.

Era quasi buio, ma la riconosceva.
Come aveva fatto a non sentirla?! Da dov’era sbucata?

Un maledetto tentacolo lo stava letteralmente inchiodando alla branda, avvolgendogli l’inguine; sentiva la pianta muoversi lentamente sotto di lui, e stava respingendo con ogni fibra del suo corpo l’idea che gli stesse palpando il culo.

Senza pensarci due volte, vedendo il rampicante troppo vicino al suo pacco, cercò di afferrarlo per sradicarlo da lì, ma immediatamente la Regina reagì, e gli conficcò gli aculei nella gamba e nelle mani.

Jabura attivò il Tekkai ma era ancora stordito, e riuscì solo a contenere i danni; sudò freddo, pensando a quanto le spine fossero state vicine a farlo diventare un soprano. Intanto, sotto di lui, la pianta continuava meticolosamente a tastare i glutei, valicando pure il confine dei boxer, e un piccolo e timido ramo stava saggiando i suoi bassi addominali, scivolando sul sangue e sul sudore.

Questa è decisamente una molestia sessuale!!! Maledetta pianta perversa!!

« Lucci! » soffiò in un ringhio, timoroso di alzare troppo la voce e mettere in allarme la pianta.
Era imbarazzante, era equivoco, era mortale. Con più panico di quanto volesse nello sguardo, si voltò verso il collega.

Peccato che lo stesse facendo anche la Regina di Primavera…
 
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Rob Lucci

CITAZIONE
« Lucci! »

«Che altro c'è?» Non fece in tempo a finire la domanda che un tentacolo si proiettò su di lui, simile ad una frusta mossa da mano invisibile.
Indietreggiò a tentoni, restando in piedi per miracolo sul pavimento scivoloso di umidità e soluzione fisiologica. Il tentacolo gli sfiorò un ginocchio, mancò la presa e ricadde a terra, dove iniziò a serpeggiare confusamente tra i resti di una flebo.
Lucci fu tentato di rispondere all'offesa, ma sapeva che era inutile. Meglio andarsene alla svelta, prima che la pianta mandasse i rinforzi.
«Sbrigati!» Bisbigliò a denti stretti, rivolto al collega.
L'espressione di Jabura, in preda al panico totale, rispose ancora una volta al suo posto.
Lucci pensò subito al veleno, ad un possibile effetto collaterale dell'antidoto, ma poi un movimento dal basso catturò il suo sguardo. Vide i tentacoli avviluppati al basso ventre e al posteriore di Jabura e un altro ramo -quello che aveva richiamo la sua attenzione- scendergli lungo la linea degli addominali, allungarsi sotto l'ombelico... e scomparire al di là della fascia che gli teneva su i pantaloni.
Per la prima volta in ventotto anni di bellicosa convivenza, Rob Lucci fu molto vicino dal provare empatia per il suo acerrimo rivale.
«Calmo», scandì fissando Jabura. «Cerca di stare calmo
Se urlava, no, se anche solo provava a dimenarsi, li metteva nei guai entrambi. Ma a farne le spese in primis sarebbe stato qualcos'altro che la pianta teneva in ostaggio.
Lucci avanzò verso di lui, attento a non fare troppo rumore mentre calpestava i detriti. Guardò di nuovo in basso. Le spine incagliavano nel tessuto all'altezza dell'inguine, tendendolo e mettendo in risalto le forme sottostanti.
Deglutì. Gli sembrò di ingoiare sabbia, tanto aveva la gola secca. Perché la situazione era critica, lui si sentiva esausto, l'edificio minacciava di crollare, ma tutto perdeva di rilevanza dinnanzi al fatto sconcertante che stava fissando Jabura in mezzo alle gambe e immaginando i suoi genitali stretti tra i tentacoli.
Distolse lo sguardo per distrarsi, per costringersi a pensare.
Fu allora che notò il tentacolo sbucare da sotto il cuscino in gommapiuma della branda. Lucci la spostò leggermente con la mano sinistra, nello stesso momento in cui, grazie al Felis Felis, dotava la destra di affilati artigli da leopardo. L'avambraccio pulsò dolorosamente dentro le fasciature all'improvviso troppo strette.
Sentendosi scoperta, la Regina di Primavera intensificò la sua morsa su Jabura e lo ancorò ben bene al lettino. Sembrava dire: fai pure, ma non dimenticarti dove ho le spine!
Lucci sollevò comunque la mano destra, pronto a colpire. Un taglio netto e il dannato vegetale avrebbe mollato la presa senza fare danni. Probabilmente.
Peccato che di netto ci fu solo la sensazione di vuoto sotto i piedi; poi il tentacolo si fece in due, in quattro, e dopo l'intera stanza cominciò a vorticare, la poca luce che filtrava dalla finestra ad affievolirsi.
Lucci dovette poggiarsi al bordo della branda e chiudere gli occhi un secondo per riaversi.
Passato il capogiro, strinse i pugni con rabbia.
Perdere i sensi ora era fuori discussione. Se proprio doveva succedere, che succedesse fuori dall'ospedale, senza strane piante ad attentare alla sua vita e alla virilità di quel bastardo che, in fin dei conti, se si trovava in una situazione tanto scabrosa era perché si era preso la briga di venire ad aiutarlo.
Riaprì gli occhi, convinto almeno su ciò che non avrebbe fatto. Non senza essere sicuro di poter tranciare il ramo al primo colpo.
«Non posso tagliarlo se non lo tiri fuori» comunicò asciutto a Jabura. Lo guardò in faccia e si affrettò a precisare: «Il tentacolo.»
 
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view post Posted on 11/9/2017, 17:36
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Il tentacolino, color clorofilla e con molta e sana voglia di andare all’avventura, si insinuò diligentemente al di sotto dei pantaloni di tuta dell’uomo. Aveva valicato con facilità l’elastico morbido che li reggeva, e ora stava indagando con meticolosità quel che c’era sotto.
Strisciava lento, gustandosi ogni singolo muscolo in tensione, scivolando sul sudore e infilandosi sempre più verso il basso. Fino ad allora aveva avuto a che fare con flaccidi infermieri e malati deperiti, finalmente poteva palpare muscoli sodi e guizzanti; era piacevole sentire l’uomo che si irrigidiva, immobile per il terrore di ricevere il dolore delle spine, ed esplorare il suo corpo.

Tanto per cominciare l’aveva arpionato, in modo che sapesse benissimo chi comandava lì dentro e non si azzardasse a muoversi; già le aveva devastato parecchie estremità, e la pianta voleva evitare che succedesse di nuovo. Era a San Popula? Benissimo: quel corpo atletico era diventato roba sua.

Il tentacolo era sceso sull’inguine, godendosi il calore e l’odore di sesso che emanava quel luogo; era sceso fra le gambe e aveva trovato qualcosa di decisamente interessante a cui aggrapparsi, e aveva cominciato con lentezza a stuzzicare, ad accarezzare, a contorcersi attorno ai genitali di Jabura, che non stava dando di matto solo grazie all’autocontrollo che gli era stato inculcato fin da piccolissimo.

CITAZIONE
«Cerca di stare calmo.»

« Credi che sia facile?! » ringhiò a bassa voce Jabura, cercando persino di respirare il meno possibile. Stare calmo?! Non era mica il suo cazzo, quello che si stava beccando le molestie di una pianta ninfomane!

Jabura strinse i denti, ben consapevole di cosa facesse la pianta quando notava troppi movimenti attorno a sé, e serrò le mani sul bordo del lettino su cui era prigioniero. Non si sentiva quasi il sangue andare nelle gambe, dal nervosismo e dalla stretta.
Lucci non sembrava voler perdere tempo: nel buio baluginarono gli artigli da leopardo.
La pianta strinse i gioielli di Jabura in un impeto possessivo.
All’improvviso l'ex carpentiere si appoggiò alla branda, interrompendo l’attacco.

« Ehi! » sussurrò Jabura afferrando il collega per un avambraccio per dargli un appoggio « Che cazzo stai-

Merda, questo due giorni fa era in coma, pensò Jabura sudando freddo e lasciando l’uomo, che si era ancorato alla barella. Riuscì a non cadere, riuscì a resistere.
Lo vide rialzare la testa ancora una volta.
Era devastato. Era letteralmente devastato. Era fradicio di sudore, pallido come un cadavere, trasformandosi aveva strappato suture e fasce, e le forze lo stavano abbandonando.
Non avrebbe retto ancora a lungo.
« Esci fuori da questo posto e lasciami qua » ordinò secco Jabura.
Fiato a vuoto. Lucci lo ignorò deliberatamente. Forse, pensò il Lupo con terrore, nemmeno l’aveva sentito.

CITAZIONE
«Non posso tagliarlo se non lo tiri fuori»

No, tu stai scherzando. Stai peggio di quanto pensassi.

CITAZIONE
«Il tentacolo.»

« Non posso » Jabura raccolse tutte le forze che aveva e confessò: « si è aggrovigliato attorno al mio cazzo »
Guardò in faccia Lucci mentre lo diceva, sperando di risultare minaccioso e che trapelasse tutta la voglia di fare una strage che aveva in quel momento, ma qualcosa gli diceva che l’unica cosa evidente era il suo bisogno di tornare a dormire a casa…

…ah, no, non aveva una casa.

Aveva una chiesa abbandonata con un materasso puzzolente.
E una pianta lo stava mastur- NO. Jabura si rifiutò di pensare una cosa simile.

« Non tranciare quello che ho addosso » disse piano. Si spostò delicatamente sul lettino, la pianta gli ficcò le spine nelle cosce e sul ventre, eludendo il Tekkai perché le spine erano robuste e acuminate. Jabura strinse i denti, sentendosi pulsare le ferite « taglia qui » ordinò, mostrando il buco nel materasso dal quale era sbucata la piantina « e poi tolgo il ramo morto e ti porto fuori »

La Principessa di Primavera decise che non avrebbe ceduto quel luogo, così meravigliosamente tonico, muscoloso, virile e caldo, senza combattere: si aggrovigliò meglio attorno al membro eretto dell'uomo e, con facilità, unì il proprio tentacolo in un delizioso nodino: ora scioglimi, se ci riesci!

Edited by Yellow Canadair - 12/9/2017, 02:00
 
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Rob Lucci

CITAZIONE
« si è aggrovigliato attorno al mio cazzo »

Grazie per avermi tolto il dubbio, idiota, pensò Lucci, ma il moto d'indignazione gli si spense ancora prima d'accendersi sul volto.
Doveva essere per il modo in cui Jabura l'aveva guardato. Era furente e irritato e smanioso di massacrare quella pianta di lì alla fine della stagione primaverile, e...
Ed era un bluff.
Lucci glielo leggeva nello sguardo, come il giorno in cui aveva capito di averlo superato sul campo di battaglia, durante un allenamento. Non ricordava quanto tempo addietro fosse successo, di sicuro abbastanza da averne dimenticato i dettagli, ma una cosa se la ricordava ancora perfettamente: gli occhi di Jabura che gli dicevano che non avrebbe retto un altro colpo, mentre il suo ghigno lo sfidava a continuare.
Allo stesso modo ora, dietro quell'aria rozza, da lupo rabbioso, Lucci vedeva solo un uomo con una tonnellata di stanchezza mentale e fisica sulle spalle che non vedeva l'ora di deporre le armi.

CITAZIONE
« Non tranciare quello che ho addosso » disse piano. Si spostò delicatamente sul lettino, la pianta gli ficcò le spine nelle cosce e sul ventre, eludendo il Tekkai perché le spine erano robuste e a acuminate. Jabura strinse i denti, sentendosi pulsare le ferite « taglia qui » ordinò, mostrando il buco nel materasso dal quale era sbucata la piantina « e poi tolgo il ramo morto e ti porto fuori »

Dei rivoli di sangue affiorarono sul ventre di Jabura nel punto in cui la pianta lo ghermiva. I pantaloni erano scuri e al buio era pressoché impossibile averne conferma, ma Lucci era certo che anche lì, dove le spine gli si conficcavano nelle cosce, si stessero spandendo macchie scarlatte. Registrò di sfuggita la reazione del rivale che stringeva i denti per controllarsi e non mettere in allerta la pianta.
«D'accordo» rispose poi, staccando le mani dalla branda. Sembrò non notare che Jabura in quel momento stesse dando direttive, dimenticare che a lui, gli ordini, li davano solo i Governativi superiori in grado. «Conto fino a tre.»
Osservò il foro sul materasso che prima non aveva notato e si preparò a colpire il tentacolo.
«Uno... Due...»


Dalla parte opposta del reparto che ospitava gli ambulatori, nel frattempo, Blueno era seduto al bancone del bar ad aspettare il ritorno dei suoi compagni.
La Regina di Primavera (così gli era parso che medici e soccorritori chiamassero il rampicante che stava infestando l'edificio) non aveva risparmiato neanche quell'aerea: l'intonaco si era staccato dal solaio in più punti, porte e finestre erano state sradicate dai cardini e molti tavoli e sgabelli erano rovesciati, parzialmente distrutti dai tentacoli o dai colpi che lui e Fukuro avevano dovuto sferrare per difendersi.
Dietro al bancone, per terra, giaceva un cimitero di bicchieri e tazzine da caffè in frantumi. Curiosamente, in mezzo a tanta devastazione, una bottiglia di liquore si era salvata: caduta giù da una mensola e attutita dai rovi della Regina, era rotolata fino ai suoi piedi ancora intatta e sigillata. Blueno ora la studiava, rigirandosela in mano per leggerne i caratteri dorati sul dorso.
Whisky. Invecchiato di quattro anni.
Nulla di particolare, né di troppo costoso, comunque sicuramente più di quello che adesso potevano permettersi di ordinare in un bar.
Ci rifletté su un secondo: forse nessuno avrebbe avuto voglia di aprire la bottiglia, quella sera, ma quando l'emergenza fosse rientrata, quando le acque -cioè le piante- si fossero calmate a San Popula... perché no? A Lucci e Kaku faceva piacere bere il sabato sera, a Water Seven. E non aveva dubbi riguardo all'approvazione di Jabura.
«Che stai facendo?»
Blueno s'infilò la bottiglia in tasca. «La prendo prima che si rompa.»
«L'hai rubata! Chapapa!»
«Non l'ho ru... »
«Blueno!» esclamò in quel mentre Kaku, sudato e col respiro un po' affannato, entrando dall'ingresso principale. Vagò con lo sguardo per la sala. «Ci siete solo voi?»
«Giungemmo infine al luogo prestabilito, ove riabbracciare i nostri compagni! YOYOI!!»
Kumadori e Califa apparvero da un altro ingresso laterale. Da soli.
«Nessuna notizia di Lucci?»
«Negativo», rispose Califa dandosi una sistemata agli occhiali. «Solo una serie di rami molestatori lungo la strada.»
«YOYOYOI! Califa!! Non essere avventata nel tuo giudizio! Non fu forse l'uomo ad abbattere le foreste della Regina?! YOI! Non fu lui a soffocare i suoi germogli?? YOYOI! Odo il pianto della Natura levarsi da questa timida creatuuuraaaaa!!»
«Manca anche Jabura» notò Fukuro facendo saettare gli occhietti da un ingresso all'altro.
«Potrebbe essere con Lucci» ipotizzò Blueno.
«Può darsi» Kaku sospirò. Se Lucci era con Jabura, significava che era al sicuro. Con un diavolo per capello, ma almeno al sicuro.
«Perché non sono ancora torna-»
Le pareti furono scosse improvvisamente da un fremito. Pezzi di soffitto cedettero, si schiantarono sul pavimento e si sbriciolarono, sollevando un gran polverone.
«Non possiamo più restare qui. Questo posto sta cadendo a pezzi!»
«YOYOI!! Dovremmo dunque abbandonare la postazione, unico faro di speranza per i nostri compagni dispersi?»
«L'idea non piace neanche a me» ammise Kaku. Studiò nervosamente una grossa crepa nel muro e aggiunse: «Ma temo che non ci sia altra scelta. Tra poco quest'area crollerà, ed è solo questione di tempo prima che succeda all'intero ospedale.»
«Forse anche Jabura e Lucci stanno cercando un'uscita più sicura», suggerì Califa. «Potrebbero essersi diretti alle scale antincendio, alla fine del corridoio.»
Blueno non era altrettanto ottimista. Del resto, era stata un'idea del lupo quella di reincontrarsi nella zona del bar. «...Oppure potrebbero essere bloccati da qualche parte.»
«Continuiamo a cercarli!» saltò su Fukuro «Vi aiuto anch'io! Chapapa!!»
In assenza di Rob Lucci e Jabura, la decisione ultima spettò al membro più alto in grado per Doriki. «Va bene, spostiamoci e dividiamoci. Blueno resterà vicino al bar il più a lungo possibile, nel caso in cui tornassero qui.»
«E se il palazzo crolla?»
Kaku ripensò a quello che aveva detto a Jabura diversi minuti prima, a proposito di non usare il Rankyaku per non demolire l'ospedale. Ormai quel problema non esisteva più.
«Apritevi un varco e scappate. Ci rivediamo fuori.»


«...Tre!»
Gli artigli di Lucci, sguainati come lame, calarono sul materasso e lo squarciarono. Il tentacolo mozzato si ritrasse all'istante, scivolando giù da un piede di metallo della branda e allontanandosi. La Regina di Primavera urlava nella sua lingua silenziosa per l'affronto subito: nessuno aveva il diritto di sottrarle una preda tanto prelibata e presto o tardi quella specie di gatto gliel'avrebbe pagata.
Lucci aveva ben altri pensieri per la testa.
«Fai quello che devi» disse a Jabura, distogliendo lo sguardo da lui. Aveva sentito una specie di boato provenire da lontano, ma da dentro l'edificio. Non era affatto un buon segno. «In fretta!»
 
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view post Posted on 5/10/2017, 17:14
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2rr1bft ~ Jabura

Jabura non perse nemmeno un secondo: si strappò di dosso ad artigliate i rami morti e, quando il collega gli voltò le spalle, si tirò giù i pantaloni fino alle ginocchia per liberarsi del tutto da quello schifo.
Masticava imprecazioni e bestemmie, costringendosi a non farlo ad alta voce per evitare di aizzare di nuovo la pianta. Principessa di Primavera? Principessa quella roba lì!? Una direttrice di bordello, una ninfomane, una stupratrice, erano i termini più carini che la mente dell’uomo mitragliava fuori.

Pure l’aiuto di quell’arrogante di Lucci, aveva dovuto accettare. E per forza, pensò, era paralizzato, e… Rob gli aveva salvato la vita, si ritrovò a pensare. Senza pretendere niente, senza commentare nemmeno quella situazione così scabrosa, gli aveva parato il culo e aveva distrutto i rampicanti che lo imprigionavano senza dire una parola… avrebbe potuto ringraziarlo, avrebbe voluto...
Fanculo! Si scrollò l’immagine del collega dalla testa. Non si era ancora ripreso dalla batosta di Enies Lobby, e già era di nuovo nei casini, pensava mentre mutava la testa in lupo e usava la vista notturna e gli artigli per cercare di raccapezzarsi in quel maledetto…

Groviglio.

Cazzo.

Jabura sospirò cercando di dominare i propri sensi, in particolare quello che gli diceva: “Alzati, urla, picchia Rob Lucci, uccidi San Popula e fai una strage”.

Se non fosse stato un Governativo che le aveva viste tutte, che aveva ucciso centinaia di uomini e di donne, e che era stato addestrato con la sferza a resistere a qualsiasi cosa, avrebbe pianto.
Tornò a guardare il suo basso ventre.
Il suo meraviglioso cazzo, che tante gioie e tanti orgogli gli aveva regalato, era a dir poco strozzato dai tentacoli, e non riusciva a trovare il bandolo dell’oscena matassa. Cercò di alzarsi, ma evidentemente il ramo morto lo teneva ancora legato al letto.
Forse la cosa, con la compagnia giusta, non gli sarebbe nemmeno dispiaciuta, ma non era il momento adatto!



« Chapapa, chapapa, chapa chapa pa… » cantilenava Fukuro percorrendo un corridoio. Saltava con grazia, tendeva le orecchie, sbirciava in ogni porta e ispezionava persino gli armadietti, e salutava anche infermieri e paramedici appesi al soffitto dalla pianta, chiedendo loro se avevano per caso visto due pazienti alti e incazzati con il mondo da quelle parti. Perché Fukuro non aveva dubbi sullo stato d’animo che dovevano avere Lucci e Jabura in quel momento.

« Ehi, forse io li ho visti! » disse un infermiere appeso in un angolo, stuzzicato pigramente da un tentacolo che gli aveva sfilato i pantaloni e ogni tanto gli faceva il solletico dietro le ginocchia.

Eh sì, la pianta ci aveva perso gusto: dopo aver saggiato gli addominali e il basso ventre di un uomo come Jabura, come si doveva accontentare di un modesto infermiere dalla consistenza ricottosa? Invece il Governativo era allenato, tonico, i muscoli erano definiti e perdersi nei suoi anfratti era meraviglioso, si sentiva odore di testosterone e profumo maschile, e scivolare sul suo sudore era afrodisiaco persino per una pianta che di stimoli sessuali ne poteva ricevere ben pochi. Era malridotto, chissà in che risse era finito, combattendo contro chissà chi, ma la pianta, a lasciarla fare, sarebbe stata in grado di avvolgerlo e fargli dimenticare ogni fatica…
« Due uomini, muscolosi, uno con i capelli lunghissimi e l’altro che era un nostro paziente » fu la descrizione dell’infermiere.
« Chapapa, sono loro! Da che parte sono andati? »
« Segui le tracce » indicò l’uomo in divisa « quello con i capelli lunghi era ridotto molto male, la Principessa l’ha preso in pieno… corri da loro, l’altro sta cercando l’eserina per salvarlo! »
Fukuro guardò a terra e individuò, fra pozzanghere e rami, le impronte delle ciabatte sporche di sangue di Rob Lucci.
Senza salutare, si diresse laddove gli suggeriva la scia scarlatta.
Si avvicinò alla porta dove sparivano le impronte pensando: “…chapapa… Lucci sta cercando qualcosa per… salvare Jabura?” la cosa gli suonava innaturale, come se all’improvviso gli avessero detto che i pirati erano buoni e i Governativi erano cattivi.



Intanto Jabura guardò verso Rob Lucci: un rumore sordo proveniente da un’altra ala dell’ospedale aveva attirato la sua attenzione. Evidentemente l’intera struttura stava per crollare stritolata dai rampicanti, [come il mio cazzo] pensò il Lupo. Per uscire, dunque, potevano farsi strada anche demolendo due o tre pareti, nessuno avrebbe avuto niente da ridire, pensò l’agente. Bene, perché demolire un ospedale gli sembrava un buon modo per sfogarsi da quell’affronto.

Il Lupo strinse le fauci e cercò diligentemente di sbrogliare la matassa, aiutandosi con i lunghi artigli e cercando di non farsi male da solo.

Dopo alcuni secondi, però, si interruppe e un sudore freddo si impadronì di lui, facendolo rabbrividire.
« Ha fatto il nodo » sussurrò, forse rivolto a Lucci, forse rivolto a sé stesso, ormai ignorare la voce che gli diceva di fare una strage stava diventando difficile « Si è annodata attorno al cazzo e non si scioglie »

Edited by Yellow Canadair - 5/10/2017, 20:29
 
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view post Posted on 28/11/2017, 23:30
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Rob Lucci

Lucci intuì dal numero e dalla frequenza delle imprecazioni che Jabura stava avendo la peggio sulla pianta, ma non si voltò a sincerarsi della cosa.
Non voleva guardare, gli bastava immaginare. Gli bastava e avanzava, in effetti, perché l'imbecille riteneva opportuno informarlo in tempo reale sulle condizioni del suo pene, come se l’intera situazione –il vegetale depravato, l’avvelenamento, l’ospedale dissestato- non fosse già aberrante di suo.

CITAZIONE
« Ha fatto il nodo. Si è annodata attorno al cazzo e non si scioglie »

Per l’appunto.
Lucci incassò quell’altra immagine scabrosa irrigidendosi e voltando appena la testa.
Era morta. Era una pianta morta, maledizione, perché quell'idiota non era in grado di strapparsela di dosso?!
Per quanto fosse restio a interessarsi al problema, l’occhio gli cadde subito tra le cosce nude e muscolose del rivale. Rimase impassibile, perfettamente composto, nulla che lasciasse trapelare impressioni ed emozioni, ma un sopracciglio sollevato un po' troppo in fretta tradì il suo primo pensiero:
E da quando ce l'hai così grosso?
Insomma, l’ultima volta che glielo aveva visto, decenni prima, quando vivevano su un’isola così piccola e selvaggia che le cascate naturali rappresentavano un’ottima alternativa alle docce –e alla fila che c’era da fare per utilizzarle– era diverso. Notevolmente diverso.
Scacciò via il pensiero serrando le palpebre, rimproverandosi: non era il momento per le constatazioni inutili e infantili!
«Lo stai sciogliendo nel modo sbagliato!» ringhiò poi, impaziente e a disagio.
Sapeva che c’era una sola cosa da fare per andarsene di lì prima che l’intero ospedale crollasse -prima che entrambi crollassero- il punto era che comportava un compromesso. Un compromesso enorme con se stesso e con ciò che fino a quel momento della sua vita era stato disposto a fare per e con Jabura.
«Non una parola...» Sibilò alla fine, gli occhi felini che brillavano minacciosamente per quanto appannati dalla stanchezza. «O ti giuro, Jabura, che dopo che avrò finito con te, tutto questo ti sembrerà quasi bello.»
Non si diede tempo di pensare. Se l’avesse fatto, forse non sarebbe arrivato fino in fondo, considerando che solo tre giorni prima una stretta di mano indesiderata col Lupo gli aveva fatto rizzare i peli sulla schiena dal nervoso.
Ora, con quella stessa mano, Lucci stringeva l'erezione del rivale, sforzandosi di mantenere lo stesso distacco di un chirurgo che pratica la prima incisione in sala operatoria. La fece scorrere verso l'alto e tentò di sfilare il tentacolo come un anello.
Sentì la sensazione del membro teso Jabura sotto i polpastrelli e si ritrovò a ringraziare il torpore alle mani che gli impediva di capire quanto l'altro fosse caldo e duro in quel momento.
Nulla da fare.
Il tentacolo restò lì dov'era, felicemente ingarbugliato alla virilità.
«È assurdo...» soffiò Lucci a denti stretti. Bloccato da una pianta morta. Non solo: molestato da una pianta morta. Persino Califa avrebbe stentato a crederci!
Scivolò con le dita sotto il tentacolo, cercando di allargare il nodo –non era semplice, lo spazio era poco, le mani gli tremavano e avevano poca sensibilità– finché non si rese conto che il groviglio era annodato stretto, strettissimo, attorno ai testicoli. Rifletté che probabilmente, essendo la pianta ormai inerte, il problema era stato l'aumento di volume.
Mascherò ancora una volta il disagio dietro la rabbia e assassinò Jabura con lo sguardo. «Se solo ti calmassi sarebbe più semplice!»
Fu allora che sentì il rumore. Un rumore più inquietante dei tentacoli che strisciavano per terra, più allarmante dell'ospedale che cadeva a pezzi e delle urla concitate all'esterno. Era una specie di nenia, che si andava avvicinando...

«...papa, cha... chapa... papa... cha... »

Lucci tappò immediatamente la bocca di Jabura con la mano libera, prima che potesse abbaiare qualunque cosa. Cercò di affinare l'udito, per quanto riuscisse (in certi istanti perdeva lucidità e gli sembrava di avere la testa sott'acqua); finché i suoi atroci sospetti non trovarono conferma.

«Chapapaaa! Lucci? Jabura?»

Fukuro.
A pochi passi da loro. Praticamente dietro la porta.
Lucci tornò a guardare Jabura e stavolta, nei suoi occhi, regnava solo lo sgomento.
Non associò nemmeno per un istante la figura del collega ad una via di salvezza: l'unica cosa certa era che se Fukuro li avesse visti –lo avesse visto con il pene di Jabura stretto in mano- lo avrebbe saputo tutta San Popula entro l'ora di cena. Per essere ottimisti.
 
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view post Posted on 3/1/2018, 01:44
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2rr1bft ~ Jabura

Jabura sguainò gli artigli da lupo, più sottili delle dita da uomo, e tentò di forzare quel maledetto groviglio, ma più ci metteva le mani e più il suo cazzo capiva tutt’altro e si eccitava.
Merda, merda, merda! Non è il momento!

La testa era per metà lupo, per vedere meglio al buio, ma tutto quello che metteva a fuoco era un casino senza precedenti e una pianta che gli strozzava i testicoli E PORC- OSPEDALE DI MERDA IN UNA CITTÀ DI MERDA CAZZO!!

CITAZIONE
« Lo stai sciogliendo nel modo sbagliato »

Jabura alzò la testa di scatto verso il rivale: « Vaffanculo! » voleva le botte? Voleva veramente stuzzicarlo in quel momento? Non era uno dei soliti momenti morti in una sede del CP9, in quel momento Jabura era un ammasso di elettricità e rabbia, e gli bastava veramente poco per esplodere.
Poi disse qualcosa sul non dire nulla a nessuno. Lì per lì Jabura non collegò, poi si vide le mani del collega sul pene. Le mani fredde e decise di Lucci lo stavano… no, non riusciva a formulare quel pensiero.

Lucci gli stava…

« Sei impazzito? » mormorò con un filo di voce.
Era troppo buio perché qualcuno notasse che era paonazzo dalla vergogna. Vergogna perché, inoltre, il suo cazzo sembrava gradire, e questo NON ANDAVA BENE.

Poi il cervello, anche se il sangue era da tutt’altra parte -oltre al pavimento-, capì cosa stava succedendo: Lucci stava cercando di aiutarlo, di sfilare quel nodo e di farlo andare via da lì. Stava tentando il tutto e per tutto per liberarlo, anche facendo una cosa che, sicuramente, lo imbarazzava da morire, esattamente come lui.

Ma Lucci, lo sentiva, stava per cedere: le mani erano fredde, tremavano, e lui stava facendo di tutto per non crollare. I suoi sensi mettevano a fuoco un uomo stanco, ancora sconvolto per la lotta sostenuta pochi giorni prima, e che aveva mandato a puttane ogni genere di fasciatura. Sentiva odore di sangue, troppo sangue.

« Senti, vattene » disse afferrandogli la mano che cercava di districare la pianta « Lasciami qua. Smettila di…! »
Cazzo, aveva cominciato a toccarlo anche da sotto. Jabura strinse i denti fino a farsi male la mascella, cercando di non pensare alla situazione. Era normale, che si stesse eccitando, no? Era una cosa meccanica, vero?
A lui piacevano le donne, giusto? Certo. Pensò per un attimo alle tette di Gatherine… quelle che non gli aveva mai fatto toccare…

CITAZIONE
« Se solo ti calmassi, sarebbe più semplice »

« Se solo smettessi di menarmi il cazzo, forse ci riuscirei »
Perché gli stava venendo duro, maledizione? Perché quello stronzo non levava le mani e lo lasciava a morire lì, invece di umiliarlo in quel modo? La stanchezza stava prendendo il sopravvento, non riusciva a concentrarsi bene, l’unico pensiero che lo manteneva cosciente era la possibilità di trascinare quel maledetto alzato di culo fuori dall’ospedale e ficcarsi sotto le coperte, nel suo letto, e annegare nell’alcool quella maledetta giornata. E soprattutto, la priorità era…

Fukuro.
CAZZO, FUKURO.

L’ultima persona al mondo che doveva vederli in quel modo!!!
« Ascoltami, vattene. Vagli incontro e digli che non mi hai vist- » e si ritrovò la mano ghiacciata di Lucci premuta sulle labbra.
Gli montò una furia feroce, toglimi le mani di dosso, ma dovette resisterle. Non dovevano fare rumore.

Poi Lucci si voltò nella sua direzione, ed era uno spettacolo terribile.

Lucci aveva paura.

La paura era una compagna che era abituato a vedere sulle sue vittime, non sui suoi colleghi. Non su Rob Lucci. Non aveva mai visto uno sguardo del genere, e sì che lo conosceva da almeno vent’anni.
O forse non era proprio paura, ma il pensiero di essere scoperto in quella situazione lo spaventava.

Jabura strinse i denti.

Fukuro si stava avvicinando.

E decise che non avrebbe mai più permesso a Lucci di avere paura.
Chiuse gli occhi e sospirò, cercando le forze per compiere l’unica cosa che gli era rimasta.
Arrendersi alla pianta.

Va bene, stronza. Per ora te lo lascio, ho altro a cui pensare.

Staccò la propria destra dalla mano di Lucci, quella che stava cercando di sciogliere il nodo.
Puntò la sinistra sul lettino su cui stava.
E poi fu un istante: si sollevò dal lettino puntando sui piedi e sulla mano, e con la destra, in un gesto rapidissimo, strappò dal materasso la radice secca da dove gli era entrata, sentendo la stoffa del materasso lacerarsi e tutti i suoi gioielli gridare per lo strattone.
Ma Jabura era un incassatore formidabile e non si diede tempo per lamentarsi. Aveva le lacrime agli occhi e forse non avrebbe mai avuto figli, forse nemmeno orgasmi, ma chi se ne frega, sono il Lupo.

« Fatto. Andiamo. » disse tirandosi su i pantaloni, lasciando la pianta aggrovigliata alla propria virilità. Prese una mano del collega e se la passò sulle spalle, reggendolo contro di sé per trascinarlo fuori.
Era lui il più forte, in quel momento, e Lucci contava su di lui. Anche se quell’idiota non l’avrebbe mai ammesso.

Edited by Yellow Canadair - 4/1/2018, 17:35
 
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view post Posted on 29/3/2018, 20:56
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The storm is approaching

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Rob Lucci

Lucci udì il rumore della stoffa lacerata ed ebbe un sussulto. Jabura si era alzato dalla lettiga, aveva strappato il tentacolo dal materasso, lasciandolo ancora annodato al suo...
Rialzò lo sguardo su di lui, interdetto e incapace di zittire le considerazioni scomode. Ammesso che il bastardo fosse grado di eseguire un Tekkai da manuale –e non lo era, non in quello stato– per certi punti deboli non c'era Rokushiki che tenesse: doveva far male. Parecchio.

CITAZIONE
« Fatto. Andiamo. »

Eppure non un lamento. Non un accenno al fatto che «Sono in questo ospedale di merda con un tentacolo stretto al cazzo per colpa tua!» o qualcosa del genere.
Si comportava come se portarlo in salvo fosse l'ennesima e indeclinabile missione governativa, con la differenza che non veniva pagato e che nessuno gli aveva chiesto di farlo.
Idiota...
Lucci s'irrigidì, gli occhi ridotti a due fessure mentre Jabura si portava il suo braccio intorno alle spalle. Detestava essere trascinato fuori in quel modo, ma inutile protestare: non era così sciocco da ignorare i propri limiti.
Uscì dall'ambulatorio sostenuto dal rivale, le ginocchia che minacciavano di cedergli a ogni passo. Sulle pareti esterne dell’edificio, lungo tutto il corridoio, si erano aperte profonde crepe di dissesto e un vento freddo e umido vi soffiava attraverso, abbassando drasticamente la temperatura.
«Chapapa... Jabura?» Fukuro, non ricevendo risposta da nessuno, aveva superato gli ambulatori e li stava cercando in fondo alla corsia, intento a sbirciare dentro un armadietto sgangherato di medicinali.
«Fukuro...»
Lucci ricordò perché Spandam non affidava mai missioni in solitario al collega, se non in caso di estrema necessità.
«CHAPA!» si riscosse quello, voltandosi nella loro direzione «LUCCI, JABURA! VI HO CERCATI DAPPERTUTTO!»
Non fece in tempo a dirgli di abbassare la voce che qualcosa, tra loro due e Fukuro, si sollevò lentamente da terra, stiracchiandosi e animandosi con un fruscio insidioso: un grande bocciolo dai petali scarlatti.
Lucci si bloccò sul posto. Non aveva bisogno di guardare Jabura negli occhi per sapere che nessuno dei due poteva difendersi dai dardi avvelenati, stavolta; non certo lui, che a stento si reggeva in piedi, né quasi certamente il Lupo, con quell'affare a torreggiargli in mezzo alle gambe e il nodo della Regina di Primavera a completare l'oscena opera.

Fukuro, che di tentacoli molesti e di fiori velenosi la sapeva lunga grazie alle conversazioni origliate nei giorni precedenti, in ospedale e nelle piazze di San Popula dove era solito esibirsi con Kaku, realizzò immediatamente il pericolo. Lucci e Jabura erano malconci e -camminavano uno stretto all'altro: non era mai successo!- doveva agire in fretta. Puntò la Regina, caricò il colpo e senza pensarci due volte eseguì: «Rankyaku!»

Il fendente investì in pieno la pianta, che fu tranciata in due ancora prima di riuscire a localizzare le sue prede. Peccato che la stessa fine toccò al muro. E ad uno dei pilastri portanti.
Lucci avvertì una forte vibrazione tutt'intorno e sopra di sé, così forte da infrangere lo schermo di spossatezza che alienava i suoi sensi dalla realtà.
Alzò lo sguardo al soffitto: il muro, gonfio e incrinato da un reticolo di spaccature, tossiva polvere d'intonaco.
Indietreggiò, o forse fu Jabura a tirarlo indietro, poi non vide e non sentì più nulla, inghiottito all'improvviso dal fragore dei calcinacci che gli cadevano addosso.
Richiamò ogni briciola di forza rimasta in corpo per attivare il Tekkai, che fu debole e disperato quanto il suo ultimo tentativo di difesa contro Monkey D. Rufy. Chiuse gli occhi, trattenne il respiro per non inalare le polveri.
Jabura era ancora vicino a lui?
Non poteva vederlo, ma ne era certo. Sentiva il calore del suo corpo; sentiva la sua presa, salda e sicura, a dispetto di tutto; sentiva ancora meglio il suo odore, sempre così intenso e penetrante dal giorno in cui aveva mangiato il Felis Felis.
In quei secondi di buio, Lucci si ritrovò assurdamente a pensare alla prima volta che Pauly gli aveva offerto da bere, a Water Seven. Era il suo primo anno da infiltrato alla Galley-La e tra lui e il mastro carpentiere di Iceburg regnava un'antipatia reciproca, quasi astiosa; ma quella volta Lucci lo aveva tirato fuori da un brutto incidente in cantiere e Pauly aveva messo da parte le ostilità, allungandogli un boccale di birra dopo l'orario di lavoro, nel bar di Blueno.
Quando fossero usciti da quel maledetto ospedale, si disse Lucci, avrebbe dovuto offrire a Jabura ben più di una birra -o di quella schifezza superalcolica che tracannava di solito.


Quando il crollo si arrestò, senza per fortuna coinvolgere l'intero corridoio, la voce di Fukuro risuonò di nuovo attraverso il cumulo di macerie, spaventata e ansiosa.
«...spia...ce!! ...Mi dispiacee!! Chappaapapaa!!!»
Perfino stordito e sul punto di perdere coscienza, Lucci lesse nel tono del collega una fifa nera di essere punito –no, massacrato di botte– per l'incidente.
«...Vi apro subito un passaggio!»
«No, Fukuro...!» ringhiò Lucci, sforzandosi di farsi sentire. Un altro Rankyaku e allora sì che sarebbero rimasti sepolti sotto le macerie!
Riaprì gli occhi, non mise a fuoco correttamente: una patina rossa invadeva un lato del suo campo visivo. Stava sanguinando dalla fronte. Le gambe rispondevano, comunque, e per il momento quello era il dato essenziale.
«Da qui non si passa. Torniamo indietro...» ansimò, rivolto a Jabura. Fukuro era venuto da quella parte, forse poteva indicargli la via d'uscita più vicina.
 
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