Come cane e gatto, [VM18] Jabura x Lucci

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view post Posted on 23/4/2018, 12:11
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2rr1bft ~ Jabura

Fukuro puntò la Regina con i suoi occhietti piccoli e precisi, e caricò il micidiale colpo senza pensarci due volte, come l’agente operativo spietato che era.
Jabura spalancò la bocca in un disperato: “Nonononono” ma non poteva bastare una preghiera a fermare un colpo così potente.

CITAZIONE
«Rankyaku

Porca miseria.
Il Lupo vide come al rallentatore le crepe spalancarsi, le pareti crollargli addosso sputando polvere, e il soffitto esplodere addosso a lui e Lucci.
Quell’idiota non ce l’avrebbe fatta a scansare il crollo; lo afferrò saldamente e impresse alle gambe le ultime forze che gli rimanevano.
«Soru»
Ma a metà del salto sentì l’aria mossa dal crollo, l’odore dell’intonaco, e il peso immenso del primo blocco del controsoffitto.
Jabura strinse i denti, afferrò Lucci per le spalle e in mezzo secondo lo buttò sul pavimento come un sacco di farina, si trasformò in lupo per chiedere l’ultimo, disperato sforzo al suo lato animale, e si lanciò sul collega per fargli da scudo, tentando quello che, sperava, era l’ultimo Tekkai della giornata. Strinse i denti, capì che quel Tekkai era troppo debole e quel soffitto troppo pesante.
Merda.
Buio.

I suoi sensi si riaccesero un poco alla volta, nel giro di cinque interminabili secondi. Jabura sentì la bocca impastata di polvere, e nella sua mente si disegnò il profilo inconfondibile di una bottiglia color ambra, bella come una donna dopo averci fatto l’amore, e desiderò annegare nell’alcol.
Ah, già, non avrebbe potuto fare l’amore proprio con nessuno: c’era un tentacolo che gli stava ancora stritolando il cazzo. Gli venne da ridere per non piangere.

…quale entità sovrannaturale si stava accanendo contro di lui?, pensò il Lupo tornando a respirare a fatica, tossendo per la polvere e la calce. No, davvero, che aveva fatto di male? Chi era che lo stava barbaramente torturando con tutti gli imprevisti del mondo, concentrandoli nell’arco di meno di un’ora?! Anzi, che li stava!

CITAZIONE
«...spia...ce!! ...Mi dispiacee!! Chappaapapaa!!!»

«VAFFANCULO!» gridò di prepotenza, facendo vibrare i calcinacci che lo ricoprivano e cercando di scrollarseli di dosso.
Tentò di alzarsi, reggendosi sui gomiti, e aprì gli occhi per guardare quel deficiente che aveva appena protetto (protetto. Aveva protetto. Lui aveva- no, non ci voleva pensare).
Rivoli scuri di sangue gli scesero lungo le braccia a mano a mano che si risollevava in piedi: il soffitto doveva aver messo a dura prova sia il Tekkai, sia quel minimo di protezione in più che gli dava il foltissimo pelo. Strinse i denti, critico: non era riuscito a evitargli del tutto il colpo, anche Lucci si era preso la sua bella dose di materiale edile, e ora era bianco di polvere d’intonaco e rosso di sangue fresco, che stillava dai punti strappati e dai capelli lerci.
E ancora non si rassegnava a stare fermo e zitto!

CITAZIONE
«Da qui non si passa. Torniamo indietro...»

E purtroppo diceva anche cose abbastanza sensate e non poteva sfotterlo. Non che ne avesse la forza, ma sotto sotto gli avrebbe fatto piacere insultarlo per qualche frase sconnessa detta lì per lì. Ma ancora più sotto sotto, invece, era contento che Rob Lucci fosse ancora pienamente in sé, tanto da riuscire a pensare lucidamente anche nelle condizioni in cui stava.
Diavolo, era Rob Lucci, mica l’ultimo dei coglioni.
Ma questo Jabura preferì tenerselo per sé.

«Alzati» gli disse spiccio il Lupo, aiutandolo a rimettersi in piedi, percependo una temperatura più bassa del dovuto nel collega, un respiro troppo affannoso, e un corpo che stava per cedere inesorabilmente. Lo strinse di più, per dargli più stabilità, e non tornò in forma umana: ormai stava raschiando il fondo del barile, e rimanere mezzo animale gli consentiva di attingere a un’ultima, disperata dose di resilienza e di forza.
«Fukuro è sicuramente venuto da lì» indicò con un artiglio, mostrando la via a Lucci «Dalla zona del bar. Forse non è crollata e possiamo uscire, c’è un corridoio che porta all’uscita. Anzi, nel retro del bar ci dovrebbe essere un’uscita secondaria più rapida, di quelle per i fornitori» considerò.
Senza aspettare una risposta o chiedere il permesso, si caricò di nuovo Lucci come aveva fatto pochissimo prima e lo trascinò verso il bar e, sperava, verso l’uscita.

Blueno intanto si era seduto su una delle sedie del bar, in una desolazione che sembrava il quadro di un pittore decadente: cocci a terra, sedie rotte e rovesciate, le pareti crollate, la calce, i mattoni a pezzi, germogli potati prima che prendessero anche loro una sedia e si mettessero seduti al bancone con lui.
Inizialmente era stato un concerto di crepe e di scricchiolii, interrotto da qualche germoglio che solitario strisciava nei muri; Blueno riusciva a percepirli mentre invadevano le condotte, invisibili, sopra la sua testa e sotto ai suoi piedi.
Ma era un tipo tranquillo, lui, non si lasciava sconvolgere: la consegna era di rimanere lì, e solo in caso di estremo pericolo doveva scappare aprendosi un varco. Anzi, lui poteva aprirsi direttamente una porta.
Rimase per un po’ tranquillo, poi alle sue narici arrivò un odore che non tardò a riconoscere: gas.
C’era una fuga di gas.
L’agente si alzò in piedi e si guardò attorno: non ci voleva proprio, anche se era prevedibile, viste le condizioni dell’edificio, anzi, era solo una questione di tempo.
L’aria umida cominciò a diventare pian piano sempre più tossica, finché non fu costretto a togliersi la maglietta e premersela contro la bocca.
Non poteva rimanere lì, rischiava di saltare tutto in aria.
«Air Door»
Era ora di muoversi: decise di replicare quanto fatto a Enies Lobby, e andare a prendere ad uno ad uno tutti gli amici, aprendo varchi a tentativi in tutto l’ospedale.

«Ecco il bar!» esclamò il Lupo, contento. Tossì. Maledizione, l’odore di gas era sempre più forte. «Ehi, scemo. Sei vivo?»
Domanda retorica, perché era sempre, sempre in ascolto del battito cardiaco del collega e del suo respiro, per controllare che fossero grosso modo regolari. Però avere anche una voce cosciente da parte sua sarebbe stato molto meglio, ma non era assolutamente nelle condizioni di tenere una conversazione per tutto il tempo della fuga.
Ogni tanto, però, Jabura glielo chiedeva: sei vivo?
Perché era vero che Lucci era uno stupido borioso, però per nulla al mondo avrebbe accettato una risposta negativa da quella domanda.

Edited by Yellow Canadair - 8/5/2018, 22:03
 
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view post Posted on 9/5/2018, 23:05
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Rob Lucci

Appellandosi ad ogni briciolo di energia rimasta in corpo, Lucci si tirò fuori dalle macerie e si rimise in piedi. Stranamente gli sembrò più facile del previsto, ma intuì subito il perché: Jabura lo aveva aiutato a tirarsi su e lui era così esausto da non essersene reso conto.
Che bastardo, pensò, colpito. In meno di un’ora era quasi morto avvelenato e poco ci era mancato che venisse castrato da un tentacolo, però non perdeva il suo smalto; Jabura incassava e resisteva, cadeva e si rialzava, imperterrito. Testardo come un cane, tenace come un lupo: una constatazione che Lucci si sarebbe portato nella tomba.
Tentennò sopra i calcinacci, o almeno quella fu la sensazione, dal momento che le sue gambe non garantivano più alcuna stabilità, ma restò in piedi grazie al rivale che lo stringeva, trasformato in forma ibrida.
Lucci avvertì solo allora il pelo umido e la consistenza vischiosa del sangue tra le dita... Ricostruì in un lampo ciò che era accaduto pochi secondi prima, quando il soffitto era crollato sopra le loro teste: il collega gli aveva fatto da scudo, proteggendolo col suo corpo -e se non l’avesse fatto, beh, di certo lui non se la sarebbe cavata con una semplice botta in testa.
Guardò Jabura negli occhi, attonito.
Forse, dopo essersi svegliato dal coma con l’ex CP9 al suo capezzale, la cosa non avrebbe dovuto sorprenderlo, ma lo fece comunque. Lucci non si aspettava di essere protetto. Perché non ne aveva mai avuto bisogno, ma anche perché al Cipher Pol gli avevano insegnato che ognuno badava per sé, che i deboli venivano lasciati indietro, e quella lezione era diventata come il suo dogma, un’incontrovertibile legge naturale.
Legge a cui Jabura veniva meno di continuo, da quando avevano lasciato Enies Lobby.

CITAZIONE
«Fukuro è sicuramente venuto da lì»

Accantonò quei pensieri, voltandosi nella direzione indicata.

CITAZIONE
«Dalla zona del bar. Forse non è crollata e possiamo uscire, c’è un corridoio che porta all’uscita. Anzi, nel retro del bar ci dovrebbe essere un’uscita secondaria più rapida, di quelle per i fornitori»

Lucci distingueva a malapena il corridoio e i cumuli di macchinari divelti e schiacciati lungo la via, ma acconsentì a proseguire in quella direzione. Non conosceva bene l’ospedale di San Popula, conosceva però Jabura abbastanza da fidarsi della sua esperienza in fatto di bar. Immaginava che avesse trascorso parecchio tempo lì, durante gli orari di visita concessi ai parenti dei malati, se non per bere (Lucci non era sicuro che potesse permetterselo) per progettare di farlo coi primi guadagni extra.
Camminò stretto al fianco del Lupo per minuti che gli parvero secoli e allo stesso tempo attimi, la lucidità che svaniva e riaffiorava come una fiamma al vento.
A circa metà del tragitto anche la sua vista si affievolì; Lucci rabbrividì per il freddo e con la mente accarezzò l’idea di fermarsi a riposare solo per un momento, giusto per riprendere fiato. Ma non poteva fermarsi ora, non con l’ospedale che cadeva a pezzi, non con Jabura -pure lui fisicamente stremato- che lottava con le unghie e con i denti per trascinarlo fuori. Si disse che non sarebbe stato da meno, e la sua volontà ebbe la meglio, mantenendolo vigile fino a destinazione.
L’arrivo all’area bar, tuttavia, non fu come se l’aspettava. Avrebbe dovuto rinfrancarlo, perché significava via d’uscita e salvezza per entrambi, invece sortì l’effetto opposto: la puzza di gas era fortissima, riempiva l’intera sala e gli dava la nausea.

CITAZIONE
«Ecco il bar!»
«Ehi, scemo. Sei vivo?»

Da che pulpito. E poi, che domanda ovvia.
«Risparmia il fiato, idiota...» ribatté Lucci, tenendo a fatica il capo alzato.
Si coprì naso e bocca col dorso della mano libera, le dita tremanti e irrigidite dal freddo. Persino alzare il braccio gli costava uno sforzo, ma era peggio dover respirare quell’aria tossica.
«Usciamo di qui... prima che questo posto...»
Un boato di deflagrazione ai piani superiori coprì la sua voce, confermando i suoi timori.


L’esplosione che diede inizio al crollo dell’ospedale di San Popula e che costrinse i cittadini a migrare nelle cliniche di Water Seven fino alla fine dell’inverno si verificò intorno alle 7:00 del mattino, più o meno quando le prime goccioline di pioggia iniziarono a bagnare i campi di primo soccorso improvvisati attorno al perimetro dell’edificio.
Medici, infermieri e pazienti, nessuno escluso, furono strappati alle loro attività per essere sopraffatti all’improvviso dallo sgomento e dalla paura. Il risveglio della Regina di Primavera era stato violento più volte, negli anni, ma di rado aveva portato a così nefaste conseguenze.

Nel bel mezzo delle grida e del fuggifuggi generale, in pochi notarono la figura slanciata del ragazzo che atterrò sul selciato sconquassato, nel retro dell’ospedale, dopo un volo di quasi dieci metri.
Kaku si scrollò i vetri rotti di dosso, la felpa strappata in qualche punto, il viso sporco di calce e nessun berretto a proteggergli i capelli corti.
Guardò la finestra da cui era stato costretto a scappare per non rimanere coinvolto nel crollo, accorgendosi che non esisteva quasi più. I piani superiori dell’ospedale erano in gran parte scomparsi, accartocciati letteralmente su se stessi.
Strinse i pugni, preoccupato. «Accidenti...»
Qualche passante gli chiese se stesse bene, se si fosse fatto male, lui si limitò ad annuire distrattamente. Avrebbe potuto spiegare che era un artista di strada, che aveva lavorato in un circo o qualcosa del genere, ma ben altri pensieri attraversavano la sua mente.
I suoi compagni erano riusciti a mettersi in salvo? Avevano trovato Lucci?
Alla prima domanda era quasi certo di poter dare risposta affermativa, quanto alla seconda...
Alzò gli occhi e notò un colombo bianco volare in cerchio sopra le rovine dell’ospedale, tubando disperatamente, incurante delle raffiche di vento e del temporale in arrivo.
Merda.
Lucci non era ancora uscito.

«YOYOIIIII!! LA FALCE DELL’OSCURA SIGNORA MERITIAMO! NEL FUOCO ETERNO DELLA DANNAZIONE BRUCEREMO, POICHÉ I NOSTRI COMPAGNI LASCIAMMO TRA LE INFIDE SPIRE DELLA REGINA!»
«Basta, Kumadori! Sei così molesto che ti avranno evitato apposta.»
«Chapapaaaaa! La pianta odia i rumori!»
«Se lo sapevi, perché ti ho sentito urlare nel corridoio...?»
«OH QUANTO FUMMO SCELLERATI!! QUANTO IN LÀ SI SPINSE LA NOSTRA IMPENITENZA!! MA ESPIERÒ LE NOSTRE COLPE, AMICI, PERCHÉ VOI NON DOBBIATE PAGARE...»
«Blueno!» Kaku svoltò l’angolo di corsa, ricongiungendosi al gruppo che era appena sbucato fuori dalla parete grazie ai poteri del Door Door.
«...Kaku!»
Califa accennò un sorriso, ma le si spense immediatamente non appena capì che assieme al collega più giovane non c’era nessun altro. «Nemmeno tu li hai trovati?»
Kaku abbassò lo sguardo, nel medesimo istante in cui Fukuro cominciò a intrecciare nervosamente le dita sulla pancia.
«...NON ESITERÒ OLTRE!! URGE IL MIO SACRIFICIO!! YOOOOOYOI!!»
«Calmatevi...» Blueno si guardò intorno «Forse sono già fuori, non abbiamo controllato all’esterno.»
Califa si aggiustò gli occhiali e puntò il cielo. «Ne dubito. Hattori li avrebbe visti.»
Kaku ascoltò di nuovo il richiamo angoscioso del piccione e l’ansia cominciò a farsi strada dentro di lui.
Sangue freddo, si disse, mai cedere al panico.
«Sentite... Stiamo parlando di Lucci, e quasi di sicuro Jabura è con lui, quindi...»
«...Si saranno fermati a litigare?»
«Yoyoi! Invero, il nostro prode compagno lo trarrà in salvo!!»
Fukuro sapeva troppe cose, cose che l’avrebbero messo in cattiva luce, ma non resistette:
«Jabura è stato avvelenato!! Il soffitto gli è crollato addosso! Io volevo aiutarli, è stato un incidente, chapapaaaa!!»
 
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view post Posted on 14/5/2018, 22:27
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2rr1bft ~ Jabura

Ho riletto il post con questa di sottofondo... e l'ho trovata bellissima. Lo so, è una cosa soggettiva, però... ecco, dovendo scegliere, scelgo questa. Il ritornello rappato dice "Do the impossible, see the invisible". Se cominci ad ascoltarla all'inizio, dovrebbe -teoricamente- accompagnare tutta la lettura.
www.youtube.com/watch?v=VT6LFOIofRE


Jabura strinse i denti e sentì tremare il pavimento, e guardò Lucci: no, non poteva farcela, cazzo! A malapena respirava, coperto di calce bianca, con le fasciature lerce e sfatte. Ogni tanto lo guardava in faccia, e lo vedeva sul punto di franargli per terra. Quanto sangue aveva perso?
Una persona normale sarebbe già morta, nessuno avrebbe potuto farcela, nelle sue condizioni.

Tranne lui. Tranne loro.

Jabura ghignò: non sarebbe stata una pianta di merda e una topaia a forma di ospedale, a fermare due come loro.
Serviva il Soru, ma nessuno dei due aveva la forza di muovere le gambe.
Serviva il Tekkai, ma non c’era nemmeno un muscolo con l’energia per farlo.
E anche avendo quell’energia… per scappare bisognava conoscere la strada, e Jabura aveva percorso tante volte il corridoio dall’ingresso a quel bar: sapeva che la strada per l’uscita era lunga, e l’accesso per i fornitori non aveva idea di dove fosse.
Rob Lucci era allo stremo, e anche lui, tutto sommato, cominciava a non sentirsi tanto bene.
Ma una soluzione andava trovata: Jabura si guardò attorno, mentre tutto tremava e crollava, e persino la pianta stava ritirando i suoi boccioli più delicati in anfratti più sicuri.

Ah, io ho ancora dei boccioli nel mio, di anfratto, considerò il Lupo.

Poi vide una cosa in fondo alla stanza, e gli si accese giusto in tempo la proverbiale lampadina.

« Mi senti? Appena te lo dico, fa’ il Tekkai!» soffiò in fretta all’orecchio di Lucci.
L’aveva sentito? Aveva capito? Ormai a Jabura sembrava fosse più lì che qui, ed era un miracolo che ogni tanto dicesse qualche parola.
Lo trascinò dietro al bancone del bar, dove di solito svolazzavano i baristi in divisa, e lasciò la presa sull’uomo. Che stesse in piedi, o si afflosciasse come un sacco vuoto, al momento non era importante.
Il Lupo si avvicinò al grande frigo del bar, un arnese grosso, di acciaio smaltato, a due ante; gli strappò la spina della corrente e prese a tirare via le mensole con la roba conservata spargendola sul pavimento.
E mentre le deflagrazioni erano sempre più forti, e tutto sembrava crollare, e sembrava di essere sotto l’onda quando ti cade addosso e ti trascina sott’acqua, afferrò Lucci per un braccio e lo sbattè con malagrazia nel frigo ormai vuoto, si infilò anche lui nello spazio angusto e chiuse le due ante tirandosi dietro la lunga treccia all’ultimo secondo.
Era strettissimo, e dovette ritornare in forma umana per guadagnare un po’ di spazio.
Non gli venne da pensare "che schifo" per la vicinanza del rivale, era del tutto concentrato su quell’unica possibilità che avevano per resistere al crollo di sei piani di ospedale, e forse anche a una caduta. Prese la testa dell’idiota e la tenne ferma contro di sé, nel buio assoluto di un frigo ancora gelido.
« TEKKAI! ORA! » urlò sovrastando il fragore dell’edificio che crollava.

L’ospedale si accartocciò su se stesso come una donna che abbia avuto notizia della morte di un figlio, e si specchiava negli occhi sbarrati di Kaku, che osservava senza parole, senza fiato. Poi fece un passo indietro, il boato delle macerie che cadevano lo investì in pieno, e una nube violenta di polvere e fumo gli si avventò addosso come una belva affamata.
Blueno, andiamo!, pensò il ragazzo.
Non possiamo… se l’ospedale non smette di crollare, nemmeno il Door-Door può farci niente, si disse in risposta.
Nessuno aveva una parola, nessuno riusciva a dire niente davanti a quell’edificio che crollava e quella polvere che impestava l’aria, sollevando una nebbia che sembrava un sudario.

Non parlava Kaku, che vedeva davanti a sé l’espressione altera di Lucci, con i vestiti di quando lavorava alla Galley-La.
Non parlava Califa, ammutolita e con gli occhiali sporchi di polvere, che chissà come faceva a vederci, con una mano sulla bocca e zittita dallo shock.
Non parlava Fukuro, che più di tutti era stato vicino a salvarli e portarli via; per pochi secondi di tempismo in più, Lucci e Jabura avrebbero potuto essere lì con loro, in quel momento.
Non parlava Blueno, che osservava in silenzio e scrutava tra la polvere: appena avesse visto i calcinacci posarsi, sarebbe intervenuto cercando di salvare quel che poteva esser salvato.
Non parlava Hattori, che più vicino di tutti gli altri si era posato laddove la polvere graffiava il prato, ai piedi di Kaku, e piangeva senza riposo.
Kumadori parlava, parlava eccome, cadenzato come una campana a morto: « …me vedrai seduto, su la tua pietra, o fratel mio, gemendo il fior de' tuoi gentil anni caduto*.»

Kaku percepiva tutto il peso delle macerie che aveva davanti, quel cumulo di calcinacci che solo poche ore prima era un palazzo di almeno sei piani grande e grosso, che dominava San Popula dalla sua collina. Si portò una mano al berretto, come per toglierlo, poi gli mancò il cuore di farlo.

Erano vivi? Erano morti?

Califa raccolse sollecita Hattori da terra, accarezzandolo e portandoselo al petto: non poteva rimanere lì per terra, con il rischio di essere calpestato da qualcuno nella confusione!
Ma, improvvisamente, il piccolo piccione cominciò a dibattersi furioso, agitando le ali e tubando all’impazzata. La donna cercò di trattenerlo, gli agenti si voltarono verso di lui, e infine il piccolino, a fatica, spiccò il volo e si lanciò come impazzito verso la nube di polvere che ancora non si era dissolta.
« Che gli è preso?! » gridò Kaku.
« Non lo so, ha fatto tutto da solo! »
Kaku gridò: « Vedo qualcosa! » e corse dietro ad Hattori.


« È il tuo piccione, scemo. Riesci a vederlo? È qui… »
Jabura aveva riconosciuto solo il battere furioso delle ali, riusciva a mala pena a tenere gli occhi aperti per la stanchezza e per la polvere che gli riempiva il naso e la bocca. Sentiva il corpo di Lucci contro il suo, contro il pelo folto e lercio, i loro piedi che si trascinavano tra le macerie. Non riusciva a capire se tremasse il bastardo, o fosse lui a tremare per lo sforzo e per la… no, Jabura non avrebbe mai pensato alla parola “paura”, mai.

Anche in quel momento, con quell’animale di Lucci che rischiava di crepargli in mano, con diverse costole spezzate -sì, le sentiva tutte, una ad una- e i postumi dell’avvelenamento, e ancora con le botte che si era preso da Gambanera a straziargli il corpo -ma non lo spirito-, Jabura non avrebbe pensato alla parola “paura”.

Avanzarono tra i calcinacci e le pareti crollate, e tra i rami morti della pianta coinvolti nel rovinoso crollo. Jabura trascinava il collega, o forse si appoggiava a lui per non cadere; non si sentiva più le ossa e andava avanti per pura inerzia, perché voleva respirare aria decente, perché voleva bere fino ad andare in coma etilico, perché voleva buttarsi a terra e dormire per una settimana.

« Sono qui! Sono vivi! »
La voce di Kaku? Era proprio lui?
« Chapapaaaa ero sicuro che foste viviiiiii »
La voce di quella grandissima testa di cazzo di Fukuro era inconfondibile.
« YOOOOOYOI! SORGON COSÌ TUE DIVE MEEEEEMBRA DALL’EGRO TALAMO, E IN TEEEEE BELTÀ RIVIVE**!!! »
Non avrebbe mai pensato di provare felicità nel sentire quella di Kumadori invece: adesso gli sembrava una pozza d’acqua nel deserto.
« Ehi! Infermiera! Venga di qua! »
Califa, l’efficienza di Califa. Benedetta donna. Jabura sorrise.
« Hai sentito, idiota? Ce l’abbiamo fatta… »
Si girò verso Lucci, ma non trovò l’amico a sorreggerlo: chi l’aveva tolto? Dov’era Rob Lucci?

Jabura vide da lontano i medici, nella nebbia che si diradava, e sentì in gola l’aria fresca della mattina di San Popula. Senza la forza di tornare in forma umana, si mise una mano sugli occhi e cominciò a sghignazzare, e poi crollò, proprio come l’ospedale, e si accasciò per terra sull’erba fresca del cortile.



[*Ugo Foscolo, In morte del fratello Giovanni]
[**Ugo Foscolo, All’amica risanata]


Edited by Yellow Canadair - 16/5/2018, 00:19
 
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Rob Lucci

Jabura deviò verso un lato del bar, ridotto peggio dei quartieri bassi di Water Seven il giorno dopo l’acqua laguna, e Lucci si ritrovò parcheggiato dietro il bancone, impossibilitato a muoversi, in attesa di Dio solo sapeva cosa.

CITAZIONE
« Mi senti? Appena te lo dico, fa’ il Tekkai!»

Che stava dicendo? Perché si era fermato?
Serrò i pugni sul ripiano incrostato dei resti delle colazioni mai consumate, scaricando il peso del corpo sulle braccia per non rovinare a terra.
Il collega si dirigeva verso il frigo. Lucci ricordò di averlo visto sogghignare ad un palmo dalla sua faccia, appena un attimo prima... e fu assalito dalla voglia di ucciderlo.
Gli sembrava il momento di farsi un goccetto? Era mentecatto fino a questo punto?!
Per fortuna, il suono di bottiglie e mensole che s’infrangevano per terra intervenne a smentirlo: Jabura stava svuotando il frigo in fretta e furia, non per riempirsi lo stomaco ma per fare spazio al suo interno. Forse l’uscita era troppo lontana e non avrebbero fatto in tempo a raggiungerla prima che l’intero ospedale li sotterrasse.
Per essere un idiota, il cervello ti funziona bene. Qualche volta.


Ripiombò il buio, e stavolta era gelido, artificiale, assoluto.
Lucci si trovò sbattuto dentro il frigo al posto delle conserve, dolorante e -malgrado Jabura avesse avuto il buonsenso di tornare umano per occupare meno spazio- stretto. Talmente tanto stretto da sentire contro l’inguine la presenza fastidiosa della Regina di Primavera, sotto i pantaloni dell’altro.
Sgranò gli occhi e fece per allontanarsi, d’istinto, ma ottenne solo di strofinarsi di più contro il corpo del rivale e procurarsi una fitta alle costole.
Strinse i denti.
Per tutta risposta Jabura gli prese la testa e lo avvicinò a sé.
Lo stava proteggendo. Di nuovo.

CITAZIONE
« TEKKAI! ORA! »

La sua voce gli scoppiò tra le tempie, sovrastando ogni altro suono.
Con la forza della disperazione o di chi semplicemente non ci stava a morire in quel modo dopo essere sopravvissuto a un Buster Call, Lucci contrasse ogni muscolo del corpo. Non sapeva di quanti ne avesse ancora il controllo, era troppo stordito, troppo stremato per capirlo, ma sperò fosse sufficiente a impedire che le pareti lo stritolassero.
Sentì il boato dell’esplosione, il fragore del crollo che li investiva come ciottoli sotto il salto di una cascata, il lamento delle lamiere che si deformavano intorno a loro. Fu sbalzato da un lato, con le pareti del frigo a premergli sulla schiena. Se l’acciaio non avesse resistito, quel posto da rifugio temporaneo sarebbe diventato la loro bara.
Morto e sepolto accanto all’ultima persona che aveva voluto vicino nella sua vita: era oltraggioso anche solo immaginarlo.
Per un attimo, tuttavia, mentre il mondo esterno continuava a sgretolarsi e l’unico sollievo dal freddo era il calore di Jabura tra le braccia, le sue pulsazioni l’unica prova che fossero ancora, ostinatamente vivi, Lucci afferrò un ultimo pensiero.
Dopotutto, meglio rischiare di morire nel buio di un frigorifero con un bastardo disposto a sacrificare tutto sé stesso per salvarlo, che sul ponte dell’esitazione, tradito e dimenticato come un fazzoletto usato dall’uomo che aveva servito fedelmente negli ultimi vent’anni.


Non riuscì a quantificare la durata del crollo, ma a un certo punto tornò il silenzio. Tornò la luce. Tenue, lontana, offuscata da una fitta coltre di polvere, ma pur sempre luce.
Lucci tossì con la sensazione di avere due sacchi di sabbia al posto dei polmoni e si rialzò, sperso in un campo di macerie, insieme a Jabura. Jabura che aveva dato fondo a tutte le sue energie: lo avvertiva dal respiro spezzato, dal tremore delle braccia, dall’odore intenso del sangue.
Maledetto idiota. Non cedere proprio adesso.
Si trascinò avanti claudicante, vedendo a stento dove metteva i piedi. Ogni tanto il Lupo sbandava a destra e Lucci correggeva la rotta, raschiando le ultime forze rimaste per impedire alle ginocchia di piegarsi; ogni tanto era lui a sbandare a sinistra e l’altro lo controbilanciava allo stesso modo. Ad un occhio esterno dovevano sembrare due morti ambulanti all’alba di un’apocalisse.
Poi Lucci lo vide.
Tra il fumo e la polvere in sospensione, come un miraggio al risveglio dal coma. Come alla fine di ogni incubo.

CITAZIONE
« È il tuo piccione, scemo. Riesci a vederlo? È qui… »

Il colombo gli volò incontro fino a posarsi sulla sua spalla. Strofinò la testa contro il suo collo, emise versi di gioia per cui non servivano traduzioni, e Lucci seppe che era davvero finita. Si rilassò.
«Hattori...» Avrebbe voluto dire di stargli lontano, o si sarebbe insozzato di sangue e sporcizia, ma le parole faticavano a uscirgli di bocca e comunque sapeva che non l’avrebbe convinto tanto facilmente.
Sentì altre voci in sottofondo, sbiadite dal vento e dalla lucidità che scivolava via, sempre più in fretta, con l’esaurirsi dell’ultima scarica di adrenalina. Le palpebre non vollero più saperne di restare aperte.
«Ehi, guardate! Sono ancora vivi!»
«Quell’uomo... non è uno dei nostri pazienti?»
«Da questa parte, presto! Ci sono dei sopravvissuti!!»
«Asp... Aspettate un attimo, quel tipo...!? Non è umano!»

Un capannello di sconosciuti, probabilmente medici e infermiere, lo attorniò e lo separò da Jabura. Sentendo mancare il suo sostegno, Lucci crollò in avanti, ma non toccò il suolo.
«Piano, fate piano!»
Di lì in poi fu tutto un susseguirsi di ordini concitati e impartiti in ogni direzione: chi urlava di preparare trasfusioni, aghi e filo da sutura; chi gridava di portare garze e flebo; chi sbraitava di fermare le emorragie prima di tutto.
Lucci voleva solo che stessero zitti. Facessero il loro lavoro, ma in sacrosanto silenzio.
E soprattutto...
Un tonfo, attutito dall’erba del cortile.
Soprattutto, perché non sentiva più quell’idiota blaterare?

Spalancò gli occhi.
Era stato adagiato su una barella di fortuna e un’infermiera gli stava tamponando la fronte con un panno umido, tenendogli il respiratore premuto sulla bocca. Poco oltre le spalle della donna, Jabura era a terra, svenuto, gli occhi intimoriti di tutti i presenti puntati addosso. Non uno, però, che si scomodasse a soccorrerlo.
Lucci spostò respiratore e mano dell’infermiera con veemenza, rivolgendosi ai medici dai camici sgualciti. «Avete intenzione... di restare lì impalati?»
Un tipo si arrischiò a guardare Jabura, in evidente difficoltà: «Ma signore, non so se... Insomma... è un licantropo...»
«È mio fratello!»
Recitare quella parte si rivelò incredibilmente semplice, stavolta, ma Lucci era troppo irritato per farci caso. Era ad un passo dall’alzarsi e scuotere quei babbei uno per uno, quando un’altra voce si fece largo tra il mormorio generale:
«Lucci, siamo qui!»
Si rese conto di non aver mai apprezzato tanto la prontezza di Kaku e del resto del suo gruppo.
«Va tutto bene. Ci pensiamo noi.»
Vide Blueno e Kumadori chinarsi vicino al compagno privo di sensi, rigirarlo di schiena, sollevargli un poco le spalle dal terreno.
«Eppur si muove! YOYOI!!»
«Sì, respira... ma bisogna fermare subito il sangue...»
Ora che lo vedeva alla luce del giorno, Jabura gli parve in condizioni perfino peggiori di quanto sospettasse; il folto pelo da lupo nascondeva poco e male le ferite aperte sul suo corpo e Lucci si chiedeva come riuscisse ancora a respirare con la faccia e il muso completamente imbrattati di calce.
Quasi leggendogli nella mente, Califa si inginocchiò accanto al Lupo, tirò fuori un fazzoletto di stoffa (quello che di solito usava per lustrare le lenti da vista), e lo usò per pulirgli il volto come meglio poteva.
«È totalmente inoffensivo.» Assicurò ai medici, portandosi una mano al petto. «Ha mangiato per errore un frutto del diavolo quando era molto piccolo...»
Vedendo le lacrime luccicarle dietro gli occhiali sporchi, Lucci si chiese se anche lei non si stesse sforzando di recitare.
«Via, fate largo! Me ne occupo io!»
«Non si preoccupi, signorina, lo salveremo!»

Dopo l’intervento di Califa piovvero i volontari, e anche a Jabura furono finalmente prestati i primi soccorsi.
Lucci si lasciò medicare dalle infermiere in silenzio, ma per quanto fosse spossato rifiutò di sdraiarsi; come Hattori rifiutò di allontanarsi dal suo grembo.
Uno dei medici della piccola equipe che si occupava di Jabura, nel frattempo, spiegava come fosse sciocco spaventarsi per uno Zoo Zoo, dal momento che San Popula stessa doveva la sua fama e il suo epiteto di “Città della Regina di Primavera” a un Frutto del diavolo.
«Molti se ne dimenticano, ma gli esperti non hanno più dubbi sul fatto che anticamente la nostra isola ha inglobato un Paramisha coi poteri di una pianta carnivora», spiegò, tastando le costole di Jabura sotto il pelo corto. «Gli anziani e i religiosi, naturalmente, vi diranno che è una punizione divina per le coltivazioni intensive e... Oh, un’altra costola rotta qui, infermiera... Come dicevo, le coltivazioni e le deforestazioni legate al commercio di legni pregiati con Water Seven fanno sempre discutere, ma tengono in piedi la nostra economia...»
Lucci si scoprì poco interessato alle origini della Regina di Primavera (e a Kumadori che si affannava a sostenere certe credenze popolari); un fatto insolito, per lui, abituato ad ascoltare e ad assorbire informazioni per deformazione professionale.
Teneva lo sguardo fisso su Hattori e, di tanto in tanto, lo spostava per indagare il volto inespressivo di Jabura.
Era strano non sentirlo fiatare, ma le stranezze di quella fredda mattina a San Popula ormai non si contavano più.

«Guardi! Gli effetti dello Zoo Zoo stanno svanendo, dottore!»
«Bene, sarà più semplice medicarlo... Oh-oh» Il medico s’interruppe all’improvviso, trovandosi davanti il corpo umano di Jabura. «Questo non mi piace per niente.»
Tutti i membri dell’ex CP9 e le infermiere presenti si allungarono a guardare.
«Cosa c’è?» chiese Califa.
Lucci pensò subito -e non senza un sentore di disagio a corrugargli la fronte- al tentacolo aggrovigliato sotto i pantaloni. Si disse che avrebbe dovuto distrarre almeno Califa, se non per pietà verso quel bastardo steso al suolo, almeno per decenza nei confronti di lei, ma non fu necessario.
«Questo ragazzo è stato avvelenato dalla Regina» Il medico si voltò a fissarlo, le mani a indicare una vistosa ecchimosi sul petto di Jabura. «Ha succhiato lei il veleno?»
Se ne era quasi dimenticato.
«Sì» rispose, pentendosene subito perché in un microsecondo tutta l’attenzione del gruppo (compresa quella di Hattori) si riversò su di lui.
«Tu hai succhia... cosa?» Kaku non trattenne lo stupore.
Lucci raccontò brevemente della paralisi, dell’eserina usata per neutralizzarne gli effetti; ma se da un lato riceveva cenni di approvazione dal personale medico, dall’altro l’incredulità dei colleghi non accennava a diminuire. Anzi, incrementava ad ogni dettaglio del racconto.
«Che vi aspettavate?» Fece Lucci, stizzito. «Che lo lasciassi morire?»
Nessuno rispose. O quasi:
«Beh, sì! Chapap-»
Naturalmente, Fukuro si beccò una botta in testa da Kaku e una chiusura forzata di zip.
«Ha rischiato di avvelenarsi anche lei, signor Rob. Dovrò somministrare l’antidoto a entrambi.»
«Ehi...» Blueno li richiamò pacatamente «Credo che si stia svegliando...»
 
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view post Posted on 8/6/2018, 21:58
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2rr1bft ~ Jabura

Un mare di rosa.
Jabura vide un mare di rosa e, oltre, il Sole. Serrò gli occhi di nuovo, troppo stanco per fare qualsiasi altra cosa. La luce era forte, era quella del mattino… e lui era vivo.
Dentro di sé ghignò: certo, che era vivo! Mica bastava così poco per metterlo a terra! Respirò piano… e il fiato gli mancò all’improvviso per il dolore: le costole.
Cazzo, quante ne aveva fuori uso?

Non riusciva a svegliarsi… sentiva voci, non le riconosceva, il suo corpo non voleva rispondere.
Qualcuno stava… stava cercando qualcosa in mezzo al suo pelo? Sentiva qualcuno che gli pigiava il fianco, e a ogni centimetro faceva sempre più male. Cazzo, smettila!, pensò il Lupo senza riuscire a spostarsi.

Qualcosa di leggero: dita eleganti e delicate gli stavano pulendo il muso, sporco di sangue, di calce e di chissà cos’altro. Cercavano di liberargli il naso, di non tirargli i baffi, di pulirgli gli occhi… da quando Lucci era così delicato, con le mani? Mica male… l’idiota aveva una carriera assicurata come estetista!

Il cervello faticava a connettere, le sinapsi non volevano saperne di ripartire a pieno regime. Una folata di vento spazzò via l’immagine assurda di Lucci che si prendeva cura del suo corpo stanco: era l’odore di Califa, era lei che era inginocchiata vicino a lui e gli stava asciugando il sangue e il sudore dalla fronte.
Santa donna. In effetti, quando mai Lucci avrebbe potuto avere quelle mani così affusolate? Roba da donne! Solo Califa avrebbe potuto conservare delle mani così lisce nonostante gli anni a imparare a fare lo Shigan, che a loro aveva fatto venire i calli!

Avvertì altre presenze, che si affiancarono a quella rassicurante di Califa. La voce tonante di Kumadori si alzò su tutte le altre, come al solito. Fukuro balbettava scuse.

Fukuro, se non ti stai zitto non riuscirai a fare nemmeno quello., pensò ricordando la scena del controsoffitto che crollava addosso a lui e Lucci. La testa gli sembrò esplodere, all’improvviso, e strinse i denti finché il dolore non passò.
Kaku, Blueno, e altre voci che non conosceva.

E Lucci? Era vivo?

Dove sei?

Di una cosa era certo, era fuori, e non era più in pericolo. Lo avvertiva dall’odore di Califa, dal suo modo di respirare: era sconvolta, ma era anche sollevata. Va benissimo, ma Lucci?
Controllò il respiro per non farsi dolere ancora le costole, e guardò attraverso le ciglia, per non aprire subito gli occhi. Il rosa, di nuovo. Intenso e brillante, proprio sopra di lui: Kumadori lo stava proteggendo dal sole, aveva creato un piccolo tetto con i suoi capelli.

Finalmente si è reso utile!

Richiuse gli occhi, stanco per quel microscopico movimento. Quando era tornato umano? Era convinto di essere ancora nella forma ibrida… che stesse perdendo colpi con l’età? Naaaah. Tutto sommato, si concesse, era stata una mattinata movimentata.

E infine una voce, profonda e seria, s’impose sulle altre: quella di Rob Lucci.

In un luogo molto remoto e molto nascosto del suo famelico animo, Jabura sospirò di sollievo. Le ossa gli gridarono dentro, assordandolo dal dolore, mentre quella voce continuava a parlare.

Ok, sei vivo, ora stai un po’ zitto.
Che diavolo aveva da chiacchierare? Lucci era sempre stato un uomo più d’azione che di parole, che aveva da discutere tanto?

CITAZIONE
«Tu hai succhia... cosa?» Kaku non trattenne lo stupore.

Il Lupo afferrava brandelli di frase, ma non riusciva a trovarvi molto senso, né se ne curava troppo, a dirla tutta: l’essenziale era che Lucci fosse ormai al sicuro, e che fosse in mano ai medici. Lui se la sarebbe cavata, anche se era ancora stordito per la fatica e per il sangue perso: l’adrenalina che l’aveva sostenuto fino ad allora era andata via, come un ruscello prosciugato, e lui era stremato, a terra, e la sua mente rifiutava di rimettersi in moto.
Quando le voci attorno a lui si fecero agitate, il suo cervello ricominciò a reagire decentemente.

E una frase girò la chiave alle sue sinapsi, e gli avviò il motore:

CITAZIONE
«Che vi aspettavate?» Fece Lucci, stizzito. «Che lo lasciassi morire?»

Jabura pensò a una risposta, cui Fukuro diede subito fiato, immancabilmente. Certo che si aspettava di essere lasciato indietro a crepare. Certo che avrebbe voluto che quell’incosciente tornasse subito dai compagni, invece di perdere tempo con lui. Certo che…
Certo che l’aveva salvato. Gli era stato vicino in momenti assurdi e vergognosi, l’aveva salvato da una paralisi totale, l’aveva sollevato quando non aveva nemmeno la forza di camminare da solo, gli aveva…
L’imbarazzo di quel ricordo smosse definitivamente Jabura, che dentro di sé avvampò mentre, di nuovo, la pianticella secca tornò ad essere troppo stretta per ciò che conteneva.

Cazzo!

CITAZIONE
«Credo che si stia svegliando...»

E hai ragione, coglione! Eri l’unico con un potere in grado di cavarci fuori, dove sei stato per tutto il tempo?!

Ma non rispose a Blueno; le sue prime parole da sveglio furono per Rob Lucci:
« Maledizione, cos’hai da parlare così tanto? ho faticato per tirarti fuori da quella merda, vedi di non sprecare tutto il lavoro! »
E dicendo ciò, Jabura fece subito leva su ciò che restava dei suoi addominali per tirarsi in piedi, ma poi dovette aiutarsi con le braccia, perché vide subito che non era proprio nelle condizioni migliori.
« No, no, si fermi, stia disteso! » lo pregò subito il dottore che aveva vicino.
« Rimani giù, non fare lo stupido! » lo rimbeccò Kaku da lontano; era vicino a Lucci, lui, controllava le pulsazioni del boss e teneva a bada Hattori, pazzo di felicità, perchè non ostacolasse i medici.
« YOYOI! UN TORTUOSO CAMMINO TI HA PORTATO FINO A QUA, OLTRE NON TENTARE, SEI TRA AMICI, NON TRA I PERICOLI DI UNA SELVA OSCURA! » Kumadori, così dicendo, gli offrì un appoggio sia con le grandi mani, sia con una mole immensa di capelli rosa, che svelarono il sole pallido della mattina e corsero a fare da momentaneo schienale, che tuttavia il Lupo rifiutò. Strinse i denti, il movimento gli fece salire il vomito, ma si impose di resistere.
« Non ti sforzare, rischi di svenire di nuovo! » lo pregò Califa, in ginocchio vicino a lui.
Jabura afferrò il medico per il bavero e sibilò, guardando la governativa per assicurarsi che fosse abbastanza lontana, ma non lo era, accidenti: « Ho avuto un problema con quella cazzo di pianta » affermò, troppo vago perché quello capisse a cosa si riferiva.
« Sì, ce ne ha parlato Lucci » disse Califa, in maniera sbrigativa « Una cosa alquanto molesta » sottolineò.
« Dav-? Cosa?! Cosa vi ha raccontato?! »

Sei morto, gatto di merda! Sei morto e sepolto! Gli hai detto della pianta ninfomane mentre ero a terra?!? Come ti è venuto in mente??

« Che siete stati attaccati dalla pianta, e lei è stato morso! » disse subito il medico, cercando di convincere Jabura a rimettersi in posizione orizzontale « Ma non si preoccupi, l’infermiera è andata a prendere le scorte di antidoto, le faremo un’iniezione per sicurezza. »
« Quindi ricordati di non usare il Tekkai » gli ricordò sottovoce Blueno.
« Lo so benissimo! » abbaiò Jabura nella direzione dell’ex oste di Water Seven. Meno male, non aveva raccontato quella parte!

Risuonò un grido in lontananza: « Le fiale!! » era tornata l’infermiera, una piccola e vecchissima donna, che recava con sé l’antidoto. Ne lasciò una fiala accanto al dottore, per Jabura, assieme a cotone idrofilo, siringhe e aghi sterili, guanti di lattice, una bottiglia rosa di alcol, il tutto su un vassoio d’acciaio rubato alle sale operatorie. Poi, con un armamentario uguale, andò lei stessa da Lucci.

« Signorina, venga » fece a Califa. Aveva visto le sue lacrime, e voleva cercare di distrarla e farla rendere utile: « Le faccio vedere come si fanno le iniezioni! Questo giovanotto non mi sembra il tipo di paziente che strepita per un ago, sarà contento di fare da modello… il fisico ce l’ha! » ridacchiò contenta, strizzando l’occhio a Rob Lucci.
Non le avrebbe fatto toccare niente, ma lei sarebbe sentita meglio, pensò, se avesse avuto la sensazione di aiutare i suoi cari!
« Questa è molestia sessuale » mormorò Califa asciugandosi il moccio con una manica: ma era solo un po’ raffreddata, non stava certo piangendo!

Jabura, intanto, tornò a rivolgersi al medico: « Senti, ho avuto un altro problema con la pianta, possiamo andare in un posto più riservato? »
« Dopo, adesso la cosa più importante è somministrarle questo, è ancora a rischio paralisi »
« LE MIE PALLE SONO A RISCHIO PARALISI! » sibilò Jabura, più letale e minaccioso possibile, avvicinandosi al medico per non farsi sentire da Califa e dal resto del gruppo.
Il dottore invece s’alterò: « Non è il caso di essere così cafoni » rimproverò Jabura « Cosa crede, che non voglia aiutarla? È proprio per aiutarla, che le voglio somministrare il prima possibile la cura »
Il povero Lupo rimase sorpreso: lui non voleva aggredirlo, aveva solo detto la verità! quasi pianse (mentre la pianta avvizzita se la stava ridendo, lui ne era sicuro, oh, le avrebbe dato fuoco nel camino della Cappella degli Accovati, si promise): « Dico sul serio! » e cercò di spiegarsi meglio. « Un arbusto mi si è impigliato al cazzo, me lo deve togliere!! »
Il medico sgranò gli occhi, e fissò quelli di Jabura: non era uno scherzo.
« Presto » disse agli agenti che circolavano lì attorno e cercavano di portare acqua, abiti asciutti, o fare ombra. « Mi serve filo di sutura azzurro »
“…filo di sutura azzurro?!” dicevano gli occhi di Blueno, Kumadori e Fukuro.
« Ha i capelli neri e un taglio in testa che va ricucito all’istante! Non vedete che perde un mare di sangue?! » si arrabbiò il medico. « Se uso il filo di sutura normale, quello nero, non riuscirò ad vederlo, tra i capelli dello stesso colore! Mentre gli faccio l’iniezione, cercatelo! »

~

« Ma è vera la storia del filo di sutura azzurro? » chiese Jabura, quando fu solo con il medico, per distrarsi dalla spiacevole sensazione di un uomo che metteva le mani sul suo cazzo.
Sorvegliava da lontano Lucci, Kaku, Califa e l’infermiera, ma per fortuna Califa non si girò mai nella sua direzione, tutta presa da qualcosa che le raccontava la donna.
« Solo in parte » spiegò il dottore tagliando con estrema delicatezza e rapidità i rami secchi che costringevano i gioielli dello sventurato Lupo « È vero che, sui pazienti con i capelli neri, usiamo per comodità il filo di sutura di un altro colore, per vederlo meglio. Non è vero che è indispensabile per ricucirli, però sul momento non mi è venuto in mente nient’altro. Non succede spesso che la pianta molesti sessualmente le persone, però ci sono alcuni casi di letteratura medica al riguardo… »

Jabura non lo fece apposta, il dottore chiacchierava di piante ninfomani risalenti ad anni prima e i pensieri gli scivolarono senza che potesse farci niente: pensò che la sensazione delle mani di Lucci sul pacco era infinitamente migliore, pur non avendo vinto contro l’orribile pianta.
Anche se il dottore invece, grazie a un bisturi e alle mani fermissime, ci stava riuscendo (e di questo Jabura gliene era grato, non si discuteva), non riuscì a dargli la stessa strana sensazione.
Si sarebbe maledetto e deriso per i giorni a venire, per quel pensiero.

« Tenga, come souvenir » concluse il dottore mettendo in mano a Jabura l’arbusto secco e contorto. Il Lupo ghignò, e allungò la mano per prendere quella maledetta radice ninfomane ma, sotto gli occhi attenti del medico, mancò clamorosamente la presa e la pianta cadde fra le gambe dell’uomo.
« …quando mi ha detto di non aver male alla testa, mi ha detto la verità, vero? »

No.

~

Trauma cranico con lieve commozione celebrale, tre costole rotte e cinque incrinate, non meno di una settantina di punti sparsi in tutto il suo territorio, e “momentanei problemi ai dotti deferenti da tenere sotto osservazione”, formula che i medici avevano detto occhi negli occhi a Jabura e non si erano presi la briga di spiegare a nessun altro.
No, si promise Kaku guardando i due colleghi sdraiati uno accanto all’altro, non li avrebbe fatti camminare fino a Dorsoduro; non riuscivano nemmeno a mettersi seduti. Guardò verso i rottami dell’ospedale: era stato carpentiere, dalle vecchie barelle rotte e inutilizzabili forse sarebbe riuscito a costruire un carrettino per portarli a casa.
I due storici avversari erano vicini, stesi su due barelle parallele; stanchi, sporchi, sfatti, così bianchi di calce e rossi di sangue sporco che i medici, prima di medicarli, avevano dovuto pulirli grossolanamente, per raccapezzarsi in quello sfacelo di muscoli dilaniati dalla fatica. Quando sarebbero ritornati a casa, avrebbero dovuto pensare a un modo per pulirli, perché sicuramente la doccia era fuori discussione (e comunque, non ce l'avevano!)... forse Califa avrebbe potuto aiutare?

Lo spazio in quel cortile era poco, e intorno a loro avevano cominciato ad ammassarsi altri pazienti, altri feriti, altre vittime tirate fuori dalle macerie dai Vigili del Fuoco di San Popula; meglio non separare le famiglie, avevano detto i medici: avevano spostato con delicatezza il Lupo accanto a suo “fratello”, perché si tenessero compagnia, assieme al resto della loro famiglia.

Vicino ai due uomini a terra erano rimasti solo un medico e un’infermiera, e lavoravano senza sosta per mettere punti e fare iniezioni di anestetico locale. Kaku e Blueno, con tanto senso pratico, erano riusciti a mettere in piedi una piccola tettoia di lamiera per ripararli dal sole e dal vento fresco.

« Se vi sentite intontiti, non preoccupatevi » ammonì dolcemente l’infermiera, che era una nonnina dolcissima di quelle che “danno il bacetto sulla bua” « Rilassatevi. È normale, sono i farmaci. Siete stati davvero coraggiosi a prendervi cura l’uno dell’altro, ma adesso ci pensiamo noi. Tu hai preso una bella botta alla testa » disse a Jabura « Rimani tranquillo, ora va tutto bene »
Era stata lei a medicarlo, a prendergli la testa tra le braccia come faceva in tempo di guerra, anestetizzarlo (una roba dolorosa, che strappava lamenti ai peggiori scaricatori di porto; quell’uomo invece non aveva detto niente, una roccia!), e poi ricucirgli la testa veloce veloce, con il famoso filo di sutura azzurro.

Lasciò una carezzina a entrambi, come se fossero stati due suoi nipotini.
Jabura guardò verso Lucci; era stordito, la lucidità andava e veniva a causa del colpo alla testa, e Califa era incaricata di dargli dell’acqua ogni quarto d’ora, però non poteva che guardare con orgoglio a quello stupido mentecatto che era riuscito a tirare fuori dall’Inferno con la cazzata del frigorifero!
« Stavi meglio dopo il Buster Call! »

Edited by Yellow Canadair - 8/6/2018, 23:31
 
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view post Posted on 5/7/2018, 18:39
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Rob Lucci

CITAZIONE
« Maledizione, cos’hai da parlare così tanto? ho faticato per tirarti fuori da quella merda, vedi di non sprecare tutto il lavoro! »

Lucci non si scompose, ma i suoi occhi scattarono oltre la barriera formata da medici e infermiere, a cercare Jabura. Quell’idiota che non riusciva a stare zitto neanche con una collezione di costole rotte e i polmoni intasati di polvere. Quell’idiota che non perdeva occasione per provocarlo, anche quando era l’ultimo nella condizione di parlare.
Quell’idiota che, curiosamente, stavolta non lo irritò. Al contrario.
Per un minuscolo, breve istante –troppo breve perché potesse lasciare un segno del suo passaggio- gli venne da sorridere.
In fin dei conti, se l’idiota poteva ancora blaterare, non era ridotto troppo male.

CITAZIONE
« Ho avuto un problema con quella cazzo di pianta »
« Sì, ce ne ha parlato Lucci » disse Califa, in maniera sbrigativa « Una cosa alquanto molesta » sottolineò.
« Dav-? Cosa?! Cosa vi ha raccontato?! »

Assottigliò lo sguardo, la fronte contratta in un’espressione di biasimo.
Non puoi essere così stupido!
Credeva davvero che avesse raccontato agli altri del tentacolo aggrovigliato al suo pene, ammettendo implicitamente di averglielo visto?!
Per non parlare del fatto che non si era limitato a guardarlo...
«Ehi. Tutto bene...?»
La voce di Kaku lo distolse da Jabura e dal ricordo dei momenti imbarazzanti condivisi nell’ambulatorio. Il collega lo fissava preoccupato, le dita premute delicatamente sul suo polso in ascolto della frequenza cardiaca.
«Sì.» Lucci non seppe se ritenere più sciocco l’imbarazzo o il fatto che, tra tutti gli imprevisti potenzialmente letali di quella mattina, continuasse a pensarci. A pensare al membro di Jabura in erezione tra le sue mani.
«Il tuo battito è un po’ irregolare. Forse è meglio farlo presente al medico...»

CITAZIONE
« Le fiale!! »

A raggiungerli (e a spostare l’attenzione di Kaku altrove) fu una delle infermiere più anziane dell’ospedale, armata di tutto il necessario per praticare un’iniezione di antidoto. Accanto a lei, Califa tratteneva le lacrime alla meno peggio.

CITAZIONE
« Signorina, venga. Le faccio vedere come si fanno le iniezioni! Questo giovanotto non mi sembra il tipo di paziente che strepita per un ago, sarà contento di fare da modello… il fisico ce l’ha! »
« Questa è molestia sessuale » mormorò Califa asciugandosi il moccio con una manica: ma era solo un po’ raffreddata, non stava certo piangendo!

Lucci si lasciò trattare dalla vecchia infermiera senza incrociare lo sguardo della collega; se l’avesse fatto, probabilmente, non le avrebbe risparmiato un’occhiata di rimprovero. Era chiaro che non stesse più recitando la parte della sorella addolorata ma si stesse facendo sopraffare dalle emozioni: qualcosa che lui non contemplava nel codice di comportamento di un agente del CP9.
Ma loro non erano più agenti del CP9, dopotutto.
Abbassò stancamente gli occhi su Hattori. Persino con la testa intontita e il fisico stravolto, quella restava la ferita più invalidante, per lui, e presto o tardi avrebbe dovuto fare i conti con tutte le sue implicazioni.
«Potrebbe essere utile imparare, non si sa mai» Kaku spronò Califa a prendere il suo posto accanto al lettino. «Se ci sono problemi, chiamatemi» aggiunse in un sussurro, per poi sparire tra i camici bianchi, in direzione di Blueno.

***

Le medicazioni coinvolsero numerose infermiere, più un medico chirurgo veterano delle sale operatorie di San Popula, e nonostante questo, fu necessaria quasi un’ora per ripulire e ricucire tutte le ferite di Lucci.
Molte delle vecchie suture si erano riaperte quando aveva risvegliato il suo frutto del diavolo («Onestamente, signor Rob, non mi capacito di come sia successo!»), ma l’intervento della Regina di Primavera prima e del crollo dell’ospedale poi, aveva richiesto nuovi punti, nonché una trasfusione per sopperire alla perdita di sangue.
«Le ferite deiscenti non sono da sottovalutare» lo ammonì alla fine il chirurgo, sfilandosi i guanti sporchi di sangue e tintura di iodio «Non dimentichi di disinfettarle e cambiare le bende regolarmente.»
«E si assicuri di prendere questi antibiotici. Vanno bene anche per suo fratello.»
«Per il collo, invece, può applicare questa lozione» suggerì ancora un’infermiera, riferendosi all’ecchimosi rossastra intorno alla sua gola –un lascito del tentacolo che aveva cercato di strangolarlo.
«E ricordi: non deve fare sforzi di alcun tipo almeno per due settimane! È stato fortunato ad essersela cavata con poco, ma...»
«Basta con queste molestie!»
Califa sbuffò, riaggiustandosi gli occhiali sul naso. Sulle sue ginocchia, un rimbrottante Hattori scrutava i dottori ritto sulle zampe, ali conserte al petto e occhietti acuti come spilli.
Lucci non poté vedere i due, dal momento che era stato costretto a stendersi sulla barella per il check-up completo, ma fu grato di sentire parte dell’equipe allontanarsi.
Con loro, restarono solo un medico e la vecchia infermiera. Il primo si occupò delle escoriazioni minori, la seconda provvide a somministrare i farmaci per endovena (pensare che dopo il coma si era illuso di aver chiuso quel capitolo). Lo stesso trattamento fu poi riservato a Jabura, trasportato su una barella identica alla sua.

CITAZIONE
« Se vi sentite intontiti, non preoccupatevi » ammonì dolcemente l’infermiera, che era una nonnina dolcissima di quelle che “danno il bacetto sulla bua” « Rilassatevi. È normale, sono i farmaci. Siete stati davvero coraggiosi a prendervi cura l’uno dell’altro, ma adesso ci pensiamo noi. Tu hai preso una bella botta alla testa » disse a Jabura « Rimani tranquillo, ora va tutto bene »

Lucci guardò il rivale e notò la vistosa fasciatura alla testa. Era successo prima o dopo la trovata del frigo?
Prima, rifletté. Quando l’aveva protetto col suo corpo per evitare che fosse lui a prendersi il controsoffitto sul cranio.
Notò anche dell’altro: i capelli di Jabura non erano più raccolti nella solita treccia, ma gli ricadevano sulle spalle, sporchi e sbiancati dall’intonaco, diramandosi sul lettino all’altezza dei gomiti. Ad occhio e croce gli arrivavano fino al fondoschiena.
Non se li ricordava così lunghi. Non ricordava neanche l’ultima volta che aveva visto Jabura senza almeno un elastico per capelli, in effetti, ma non c’era da stupirsene; aveva trascorso cinque anni a Water Seven, e ad Enies Lobby i suoi incontri col Lupo erano ridotti al minimo indispensabile, dal momento che la sua stupidità li portava sempre alle mani –e ai richiami disciplinari di Spandam.
Ma d’altra parte...

CITAZIONE
« Stavi meglio dopo il Buster Call! »

Poteva darsi torto?
«Parli perché non ti sei guardato allo specchio.»
«Non avete intenzione di mettervi a litigare proprio adesso, vero?» Califa calcò la parola guardandoli severa, quasi scandalizzata (Siete vivi per miracolo! Gridavano i suoi occhi).
Lucci contemplò il volto stanco di Jabura, la flebo che oscillava pigramente sull’asta accanto al lettino colma di chissà quanti antidolorifici in soluzione, e decise che la collega aveva ragione. Almeno per quella giornata, poteva deporre l’ascia di guerra.
Si voltò e chiuse gli occhi. «Dormi, idiota.»

Ma la quiete non durò a lungo.
Uno scalpiccio di tacchi a spillo avanzò nella confusione, percorrendo il lastricato che attraversava il prato del cortile. L’infermiera in calze a rete si fece largo tra le colleghe e si profilò dinnanzi a loro pochi minuti dopo, un mazzetto di documenti e dépliant tra le braccia e un sorriso smagliante sulle labbra.
«Ho ottime notizie per voi, miei cari!»
Califa si fece avanti, professionale ed efficiente come sempre (forse vedere Jabura più o meno vigile le trasmetteva sicurezza). «Di cosa si tratta?»
L’infermiera le porse un modulo, corredato da due fogli fitti fitti di articoli e condizioni contrattuali: per tutte le prestazioni sanitarie a pagamento (come quella che loro avevano richiesto per Lucci), a quanto pareva, era prevista un’assicurazione.
Lucci faticò a seguire il discorso, i farmaci gli davano alla testa e la nausea non faceva che aumentare, ma capì la risposta secca di Califa quando ebbe finito di visionare l’offerta: «Grazie, non ci interessa.»
«Chapapaaa! Perché no? In questa clinica c’è anche un parco giochi!»
«NON ESSERE PRECIPITOSA NEI TUOI GIUDIZI, YOYOI!!»
Califa sbatté i documenti tra le braccia della donna. «Ho detto che non ci interessa!»
«Sta scherzando? I suoi fratelli ne hanno un estremo bisogno, devono essere ricoverati in clinica!»
«YOOOOYOI! IL DOLORE HA TRAMUTATO IL TUO CUORE IN PIETRA, CALIFA!!»
«Non si rende conto di quanto siano gravi le loro condizioni. Mi faccia parlare con loro!»
«Che sfacciata molestia sessuale!»
«Califa si sta arrabbiando, comincerà a schiumare! Chapapaaaa!!»
Irritato dal trambusto scoppiato all’improvviso, Lucci si mise a sedere sul lettino. Fu come ricevere una coltellata dritta tra le costole, ma strinse i denti senza emettere un gemito. «Qual è il problema?»
«Lucci, non devi...»
L’infermiera ignorò la debole protesta di Califa e consegnò a Lucci dépliant, moduli e penna.
«Signor Rob, sono lieta di informarla che lei ha diritto al ricovero gratuito presso la clinica Royal Mizu di Water Seven! Date le circostanze, sono certa di poter ottenere delle agevolazioni anche per il suo adorato fratello...» Rivolse un sorriso commosso a Jabura e continuò «Parliamo della clinica migliore della metropoli. Ma che dico? Dell’intero arcipelago! Pensi che persino il sindaco Iceburg si rivolge sempre alla struttura per i suoi controlli annuali. Oh, e accanto alla clinica, l’Hotel Chiza è pronto ad ospitare i suoi familiari. Sempre che vogliano venire... Ecco, basta una firmetta in fondo al modulo e già stasera potrà trasferirsi nella sua stanza. Come vedrà, è dotata di tutti i comfort!»
Lucci aveva le mani indolenzite dentro le fasciature, ma questo non gli impedì di strappare i fogli sotto gli occhi sgomenti della donna.
«Ma che sta facendo??»
«Noi non andiamo a Water Seven.»
Gli era bastato sentire il nome di Iceburg per decidere che no, non avrebbe messo più piede nella metropoli dell’acqua. Non solo per la loro attuale condizione di ricercati; in un certo senso, sentiva di doverlo al fondatore della Galley-La. E a Pauly.
«Signorina...» bisbigliò un’altra infermiera alla caposala «credo che abbia bisogno di un tranquillante...»
Un verso minaccioso si levò dalla spalla di Lucci. Hattori gonfiò il petto e arruffò le piume, pronto a scagliarsi contro la prima mano munita di siringa.

«Che sta succedendo?»
Furono Kaku e Blueno, riemersi dall’agglomerato di macerie che un tempo era l’ospedale principale di San Popula, a placare le acque.
Una volta compresa la situazione e i motivi per cui non potevano accettare il ricovero in clinica (anche se Dio solo sapeva quanto ne avrebbero avuto bisogno Lucci e Jabura) spiegarono con gentilezza alle infermiere che preferivano ritirarsi tra le “calde e accoglienti mura domestiche”. Per la convalescenza di Lucci, uscito da pochi giorni dal coma, avrebbe giovato un ambiente più riservato; inoltre non se la sentivano di affrontare il viaggio: una traversata in quelle condizioni avrebbe spossato ulteriormente i fratelli («Jabura soffre il mal di mare, chapapa!»).
«Come preferite...» si rassegnò l’infermiera «Ad ogni modo, fareste meglio a muovervi. È previsto un temporale nel tardo pomeriggio, stiamo trasferendo tutti i pazienti.»
«Senz’altro. Stavamo giusto per andare.»
La donna studiò criticamente il carretto che Kaku e Blueno avevano imbastito coi resti di qualche ferraglia. «...Spero che in casa abbiate i mezzi adatti per prendervi cura di loro!»
«Ma certo, non ci manca nulla» rispose Kaku con un ampio sorriso, e Blueno serrò la zip a Fukuro più veloce che poté.

Kaku era un ottimo bugiardo.
Lucci l’aveva constatato in molte occasioni durante la missione d’infiltrazione a Water Seven, ma mai pienamente come in quel momento, fermo sul sagrato consunto di una piccola chiesa abbandonata che Kumadori ebbe il coraggio di definire “casa dolce casa”.
«L'interno è meglio, davvero.»
Bugiardo due volte.
La chiesa era gelida, spoglia e assolutamente inospitale: alcune vetrate erano sfondate; le mura macchiate dall’umidità; gli intonaci dei soffitti scrostati dal tempo e dall’incuria. Per chi era abituato a vivere tra gli agi del Palazzo di Giustizia di Enies Lobby, la Cappella degli Accovati era uno scenario quantomeno desolante.
Lucci zoppicò lungo la navata centrale guardandosi intorno, infreddolito e bagnato fino alle ossa. Una pioggia sottile ma costante li aveva accompagnati durante tutto il tragitto, dal centro della città al quartiere di periferia Dorsoduro; i lunghi capelli di Kumadori, spiegati a mo’ di ombrello, già alla metà del viaggio erano fradici.
«Ci siamo quasi... Piano, fai attenzione.»
Blueno si coordinò con Fukuro per trasportare Jabura giù dal carretto e all’interno della Cappella, usando tutta la delicatezza possibile.
Lucci seguì la scena con la coda dell’occhio, senza commentare. Anche lui aveva dovuto accettare l’aiuto di Kaku per mettersi in piedi e salire le scale del sagrato, ma almeno poteva camminare sulle sue gambe.
«Vieni, ti mostro dove sono i letti» lo richiamò Kaku, facendogli strada verso la canonica. «C’è un po’ di disordine... di solito non è così.»

Ma a colpire Lucci non fu certo il disordine. I “letti” altro non erano che sei vecchi materassi gettati direttamente sul pavimento sconnesso: più che un dormitorio, quella stanza, ricordava un accampamento di miserabili.
Kaku aggirò le coperte, ammucchiate ovunque a testimonianza di un precipitoso risveglio, e sistemò due lettini in parallelo.
Nel frattempo, dal corpo principale della chiesa, si udì un sonoro “STONK”, seguito da Fukuro che si prodigava in mille scuse e da Kumadori che si offriva di espiare la colpa del compagno con un Seppuku. Forse ci fu anche qualche imprecazione nel mezzo, ma era difficile stabilirlo con l’eco delle voci che si rincorrevano su per l’alto soffitto.
Lucci rimase a fissare l’uscio, seduto sul primo lettino. Kaku prese posto accanto a lui.
«Ha aiutato anche me, sai?» Disse dopo un po’, guardando un punto fisso davanti a sé. «Jabura, intendo.»
Lucci capì dal modo in cui il collega si passava una mano sul collo che si trattava di una conversazione confidenziale. Uno di quei discorsi che, per tacito accordo, sarebbero rimasti tra loro due. «Dopo lo scontro con Roronoa ero esausto. Non riuscivo a stare in piedi, figuriamoci a camminare... I marines ci stavano cercando e non volevo rallentare gli altri. Ho detto loro di proseguire, e... Jabura mi ha insultato.» Una pausa. Kaku abbassò lo sguardo. «E mi ha portato sulle spalle fino a San Popula, lungo i binari del treno marino.»
Abbozzò un mezzo sorriso, arrischiandosi a confessare qualcosa che non aveva mai confessato a Lucci, e forse neanche a se stesso. «Non è così male come pensavo, in fondo...»
Lucci restò in silenzio per qualche secondo, accarezzando Hattori che sonnecchiava appallottolato sulla sua spalla.
«No...» commentò alla fine. «È solo stupido.»
Kaku ridacchiò, strofinandosi la punta del naso. «Sai com’è, il lupo perde il pelo...»
Per una volta, era bello vedergli fare un sorriso autentico.

«Si può?»
La chioma taurina di Blueno sbucò cautamente dalla soglia.
Kaku lo invitò ad entrare, alzandosi dal letto. «Vado ad accendere il fuoco, qui dentro si gela. Voi cercate di riposare.»
 
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view post Posted on 17/7/2018, 18:37
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2rr1bft ~ Jabura

In quel momento nessuna Cappella Sistina, nessuna Westminster, nessuna cattedrale di Reims o qualsiasi altro monumento, religioso o civile, poteva competere per bellezza con l’umile Cappella degli Accovati.
Quando gli occhi di Jabura, foschi di stanchezza, misero a fuoco quelle pietre chiare e grezze, quegli affreschi che cadevano sfarinandosi, quelle panche tarlate e, proprio in fondo, la porticina che collegava la navata alla canonica, gli sembrò di essere arrivato vicino al più sontuoso e meritato tesoro: il proprio letto.
Che poi chiamarlo “letto” era un’esagerazione: non era altro che uno schifoso materasso poggiato direttamente sulle mattonelle del pavimento. Ma sarebbe stato comodo, sarebbe stato caldo, sarebbe stato tranquillo.
E poi sarebbero stati tutti insieme… niente più corse, da solo, in un ospedale degli orrori, per cercare quell’irresponsabile di-

CITAZIONE
STONK

«Chapapa, mi dispiaceeeeee…»
«YOYOI, IL PERDONO INVOCO! IL BUIO, LA TENEBRA CHE AVVOLGE QUESTO LUOGO SACRO…»

ANDATE.

A.

FANCULO!


Erano entrati nella navata principale della chiesa, aprendo un varco nel portone d’ingresso (vecchio e pesante, di quelli di bronzo, con una palla di cannone ancora incastrata in una delle ante… chissà in mezzo a che battaglia era finita, quella porta); Jabura non si reggeva in piedi, ci aveva provato due volte durante il percorso, e altrettante volte era stato preso a braccia da Kumadori e Blueno. Non ce la faceva. Quindi si era lasciato convincere da Kaku e da Califa, ed era rimasto docilmente sul carrettino improvvisato.
Aveva aperto gli occhi solo quando aveva intuito di essere al chiuso, e quando un antico odore di incenso gli entrò nel naso, facendosi largo tra quello schifo di calce che si sarebbe sentito nel naso nei giorni a venire; era a casa.

Una casa sporca, lercia, fatiscente, dal soffitto altissimo da cui si sbracciavano uomini mezzo nudi e mezzo coperti da tuniche, con ali grandissime. Alcuni di questi personaggi erano così rovinati che a mala pena si sarebbero detti umani; altri erano ormai spariti, mangiati dall’umido che spandeva un’ombra nera sul soffitto, che partiva da dietro l’altare e sembrava voler avvolgere, col tempo, l’intera chiesa.
Però era casa, era maledettamente casa, era l’unico posto che Jabura riconoscesse come casa.

Ma Kumadori o Fukuro erano stati ben felici di riportarlo alla realtà, andando a far sbattere quel precario trabiccolo contro le povere panche che ancora rimanevano in attesa dell’ultima messa.
«Cazzo…» imprecò il Lupo, reggendosi al carretto per non cadere rovinosamente sul pavimento «In questa cazzo di chiesa sono rimaste DUE PANCHE… E VOI SIETE STATI IN GRADO DI ANDARCI A SBATTERE CONTRO?!»
«Calmo, calmo» muggì Blueno recuperando il controllo del carretto e allontanando Fukuro che tentava di districarsi tra ruote, panche e piedi di Jabura. Lo resse a viva forza e lo rimise faticosamente sul carretto.
«Sono calmissimo» protestò quel testardo.
Blueno nemmeno rispose. Semplicemente, non aveva particolari opinioni sulla spavalderia di Jabura: era fatto così. Per fortuna lui era alto e piazzato, e sollevare il Lupo non fu difficile. Anche lui, il vecchio oste di Water Seven, dietro una facciata di marmo e compostezza, era preoccupato: erano suoi compagni, quelli che erano quasi morti, e sapeva benissimo che senza di loro sopravvivere, o anche semplicemente tornare nelle fila del Governo, sarebbe stato difficile.

Sarebbe stato complicato anche riuscire a comprendere che non ci sarebbe più stato un Lucci, o un Jabura, se quei due non fossero stati così mortalmente testardi. Blueno non ci voleva pensare, preferiva rendersi utile: stava già pensando a cosa preparare per tutti, perché li conosceva abbastanza bene per sapere che, tempo due ore al massimo, e avrebbero cominciato ad avere una grandissima fame. Ripensava a quello che avevano detto le infermiere per Lucci e Jabura: cibo leggero, meglio se liquido o quasi, per non sovraccaricare lo stomaco che, specialmente nel caso di Rob Lucci, aveva subito ogni genere di colpo.

«Manca poco, siamo vicini alla camera. Ce la fai?»
«…certo che ce la faccio, scemo» rispose urtato Jabura.
Faceva il duro, ma quello che pensava era: no, non ne posso più, aiutami a sdraiarmi e poi lasciami stare.
Voleva solo dormire, dimenticarsi di quella mattinata, concentrarsi sul non sentire dolore, in un angolo remoto della sua testa e di quella maledetta stanza.

CITAZIONE
«Si può?»
La chioma taurina di Blueno sbucò cautamente dalla soglia.

Trovò Kaku e Lucci seduti su uno dei materassi, e il più giovane si alzò quasi subito: da come si sfregava le mani, era diretto ad accendere il camino.
«Vuoi accendere il fuoco?» domandò Blueno, stupito.
«Si gela» ripetè Kaku «E hanno perso un sacco di sangue: non possiamo farli rimanere in questa ghiacciaia»
«Sì però» avversò Califa «Non possiamo accendere il fuoco, o il fumo si vedrà da lontano. Dobbiamo aspettare che faccia buio»



Intanto Blueno fece scendere Jabura dal carretto (erano riusciti a farlo passare sulle scale della chiesa portandolo in tre, e poi nell’edificio usando il Door-Door, ma era troppo grande per entrare anche nel dormitorio affollato) e lo portò con delicatezza sul suo materasso, quello in fondo alla stanza, esattamente accanto a quello dove stava Rob Lucci.
«Chapapa, ma si scannano, se stanno vicini» protestò Fukuro.
«Sì, ma sono più facili da gestire: basta che uno solo di noi si metta vicino a loro, e sorveglia tutti e due» spiegò Califa.
Da bravo agente esecutivo aveva subito accantonato la paura, ed era tornata la segretaria per vocazione che era un tempo. Nulla le sfuggiva.


Jabura toccò il suo materasso alle 11:52 del mattino, cinque ore e cinquantotto minuti dopo essersi alzato. Affondò gli artigli nel vecchio giaciglio, soddisfatto, e trasse un sospiro di sollievo.
«Non trasformarti, altrimenti fai saltare i punti!» lo ammonì Califa. «Ti metto una coperta. Se hai freddo o caldo, dimmelo. Tra qualche ora ti misuro la temperatura.» gli anticipò, per abituarlo all’idea.
«Sto benissimo»
«…che sfacciato» sibilò la donna. «Kaku, una coperta» ordinò secca.
Lì per lì Kaku non seppe subito cosa fare: non erano molto attrezzati; poi prese due plaid dal letto suo e da quello di Kumadori, e li passò alla collega.

Jabura chiuse gli occhi e si asserragliò nelle coperte che Califa diede, come un lupo nella tana nel mezzo dell’inverno.
La donna si mise comoda vicino a lui e gli prese un polso, per controllare che il battito fosse regolare.
Jabura la lasciò fare. Non aveva più né la forza né la voglia di contrastare nessuno. Sentiva le dita morbide della collega che gli prendevano il braccio, delicata, e non vedeva l’ora che glielo facesse rimettere sotto le coperte: aveva freddo. Si gelava in quel posto, maledizione! Eppure sapeva che non potevano accendere il fuoco, né per scaldarsi né per cucinare, o il fumo sarebbe stato visto da chilometri.

I capelli gli davano fastidio, sciolti com’erano, e sparsi sul cuscino, però non aveva la forza né la voglia di farsi neppure la più stupida treccia, con le fitte alla testa che lo tormentavano. Al diavolo! Magari avrebbe chiesto a Califa… ma dopo, molto dopo.
Oppure a Lucci, gli venne da pensare. Era o non era sempre con i capelli impeccabili?
Sempre meglio di Kumadori, che gli avrebbe urlato poesie nelle orecchie, o di Fukuro, che aveva evidentemente litigato con tutti i barbieri di Enies Lobby.

«Chapapa, vado a cercare altre coperte!» saltò su Fukuro, impaziente di togliersi dalla traiettoria dello sguardo assassino di Jabura «Giù nella piazza hanno allestito un baracchino della Croce Bianca per soccorrere chi ne ha bisogno, vado a chiedere se hanno qualche vecchia coperta!» e senza chiedere niente a nessuno, infilò la porta, percorse la navata principale e arrivò al vecchio portone di bronzo.

Poi aspettò Blueno, che lemme lemme gli era andato dietro: nessuno aveva mai neppure provato ad aprire quella porta, serrata dalla ruggine e da un pesantissimo e antico lucchetto; era Blueno che, ogni volta, la faceva attraversare con il Door-Door.

La donna avvertiva il battito sul polso del compagno, e contemporaneamente teneva gli occhi sulla lancetta dei secondi di un piccolo orologino. Tutto regolare… del resto, quell’uomo era fatto di ferro, non bastava così poco per ucciderlo. Però aveva rischiato veramente grosso, quel che non era riuscito a fare quel pervertito di Gambanera, l’aveva fatto la Regina di Primavera.
Lucci era stato deposto, con mille attenzioni di Kaku, sul materasso vicino a quello di Jabura. Quando Califa gli diede le spalle e si dedicò al compare, il Lupo aprì un occhio per controllare la situazione, e che l’alzato di culo non venisse strapazzato troppo, con tutta la fatica fatta per salvarlo, ma quando vide Hattori posarsi placido, finalmente, capì che andava tutto bene.
Almeno per quanto potesse andare bene con un quadro clinico come quello.
Le coperte che aveva addosso pian piano si scaldarono, e il calore cominciò ad avvolgerlo; Jabura scivolò nel sonno, nonostante le continue fitte alla testa e ai fianchi. Califa era rimasta lì vicino a loro: ogni tanto sentiva la sua mano che gli sfiorava una spalla, e sapeva che a Lucci, di tanto in tanto, venivano rimboccate meglio le coperte.


«Si sono addormentati tutti e due» sussurrò Califa alzandosi e andando verso Kaku e Kumadori. Blueno era stato messo di guardia, e andava in giro sul tetto della cappella, ben attento tra Soru e tegole, per controllare che nessuno si avvicinasse.
Kaku sbirciò nella direzione dei due uomini, nascosti dalle coperte.
«Corpi sfatti di fatiche mai cantate, menti discinte del dolore di mille spilli che trafiggono il cuore…»
«Kumadori, non ora. Lasciali dormire» intervenne Kaku, severo.
«Yoyoy! Miserando! Farò seppuku per-
Califa gli posò una mano sull’avambraccio che stringeva un coltello affilato, quello che Blueno usava per tagliare il pane. «No.» disse «Basta così. Niente altre emergenze, per oggi»


«Trentotto e due»
«Lasciami stare»
Califa sospirava, e Jabura ringhiava.
L’unica nota positiva era che un agente del CP9 non si sarebbe mai lamentato, né per le ferite né per qualche decimo di febbre, e questo rendeva Jabura un paziente tutto sommato gestibile.
Il lato negativo era che, a meno che non costretto dalla Santa Inquisizione, Jabura non avrebbe mai e poi mai ammesso di averli, quei decimi di febbre.
Meno male che esistevano i termometri!

Califa e Kaku non avevano mangiato, quel pomeriggio, per comprare quel termometro, ma non l’avrebbero mai detto e nessuno.
E con i segreti ci sapevano fare.

Jabura tentò maldestramente, e senza riuscire a sollevare la testa dal cuscino, di infilare di nuovo la manica della grande e vecchia felpa che aveva addosso, che Califa gli aveva fatto togliere per ficcargli il termometro ghiacciato sotto al braccio!
«Piano, fa’ piano» gli afferrò il possente avambraccio, che scottava, e lo guidò dentro alla felpa scura, coprendo poi il compagno con la coperta.
Il Lupo si inabissò sotto le coltri. Era incazzato col mondo come un animale ferito, e il fatto di non riuscire a sollevarsi dal letto lo faceva arrabbiare ancora di più.

«Hai preso freddo quando sei andato in bagno?» muggì Blueno.
Jabura riaprì gli occhi e sguainò le fauci: «Che dovevo fare? Pisciarmi addosso?!»
C’era un bagno, nella canonica, e volendo si sarebbe potuto usare; ma non aveva l’acqua, non aveva uno scarico, e con sette persone a usarlo sarebbe stata una catastrofe nel giro di tre ore. I bisogni si facevano in un secchio in un piccolo stanzino dietro l’altare maggiore, e il secchio andava svuotato alla piccola fontanella che c’era nella piazzetta poco lontana dalla chiesa.
Uno schifo, ma era l’unica soluzione.

Quando Lucci era degente all’ospedale, di solito i ragazzi usavano i bagni destinati al pubblico.
Jabura però non ce la faceva a fare quei duecento metri per pulire il secchio, e preferiva semplicemente un vicolo buio, nascosto. Tanto, con la pioggia che promettevano le nuvole nere da nord, non sarebbe stato un problema per l’ambiente, e Dorsoduro era un quartiere abbandonato e cadente.

Almeno, in tutto quello sfacelo, i suoi capelli erano tornati in ordine in una bella treccia, fermata in fondo da un fiocchetto per bambine. Niente più grovigli neri che si sparpagliavano ovunque!

«È una reazione normale a quello che hanno passato» si intromise Kaku, per smorzare la tensione proprio come gli toccava sempre fare a Water Seven, tra Lucci e Paulie. «Hanno il sistema immunitario a terra; l’infermiera ha detto che sarebbe stato strano il contrario.»
«Jabura poi non ha nemmeno mangiato» sospirò Blueno, che aveva cucinato un bel brodo vegetale per tutti. «Mentre Lucci…»
«Yoyoi! C’è chi mangia, c’è chi beve, c’è chi fa quel che può. Non si giudichi, non si indichi, si soccorra soltanto il fratello che non può» declamò Kumadori, che aveva comprato del pane bianco fresco al prezzo di un intero poema epico recitato nel chiostro di un ricco convento.
Califa rimboccò le coperte a Jabura, e si rivolse verso Lucci, mentre puliva con cura il termometro.

Edited by Yellow Canadair - 18/7/2018, 14:03
 
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Rob Lucci

CITAZIONE
«Si sono addormentati tutti e due»
«Corpi sfatti di fatiche mai cantate, menti discinte del dolore di mille spilli che trafiggono il cuore…»
«Kumadori, non ora. Lasciali dormire» intervenne Kaku, severo.
«Yoyoy! Miserando! Farò seppuku per-
Califa gli posò una mano sull’avambraccio che stringeva un coltello affilato, quello che Blueno usava per tagliare il pane. «No.» disse «Basta così. Niente altre emergenze, per oggi»

Quando udì le voci dei colleghi svanire dietro la porta, Lucci riaprì gli occhi, avvolto dal tepore delle coperte e dalla penombra polverosa della canonica.
Non aveva dormito, non proprio. Dal suo arrivo alla Cappella degli Accovati era riuscito a conquistare solo un sonno leggero, che non bastava ad estinguere il bisogno di una sana dormita, ma che restava il massimo grado di riposo concessogli dalla mente in quel momento.
Non riusciva a smettere di pensare.
Il CP9, quello che fino a poche settimane prima era la massima organizzazione d'intelligence al mondo, l’élite di agenti segreti del Governo, ora raschiava il fondo della scala sociale occupando abusivamente una chiesa abbandonata di periferia, elemosinando coperte usate alla Croce Bianca, allestendo stupidi spettacolini nelle piazze di San Popula in cambio di pochi spiccioli. A corredare il quadro del degrado: zero assistenza sanitaria, zero riscaldamenti, zero servizi igienici.
Erano praticamente dei senzatetto, oltre che dei ricercati.
Ma c’era un altro fatto, quasi più inconcepibile di tutto il resto, che Lucci aveva già notato nelle espressioni distese dei colleghi quando avevano varcato il portone della Cappella e che adesso trovava conferma anche in Hattori, raggomitolato tra la sua spalla e il cuscino, mentre sonnecchiava beato.
A nessuno importava. A nessuno era saltato in mente di lasciare il gruppo, di prendere la prima imbarcazione al porto e navigare verso condizioni di vita più dignitose, no. Vivevano nella miseria, nel freddo di una chiesa che odorava ormai più di muffa che d’incenso, ma i suoi colleghi si preoccupavano unicamente che lui e Jabura stessero bene, che avessero una coperta per riscaldarsi.
Già, Jabura...
Lucci voltò la testa verso il materasso accanto, dove il rivale dormiva profondamente, asserragliato sotto due plaid logori.
A quell’idiota sembrava importare meno di tutti. Sembrava addirittura sereno tra quelle coltri, incurante della precarietà del rifugio e delle sue costole a pezzi.
Rimase a contemplarlo nella fioca luce della canonica con l’impressione di avere di fronte una persona che non conosceva affatto, nonostante lo conoscesse praticamente da sempre. Solo dopo un po’ si rese conto che il Lupo non riusciva a stare fermo: di tanto in tanto si rigirava nel sonno, come se fosse infastidito da qualcosa.
Con la testa pesante a causa delle dosi massicce di analgesici, Lucci si mise a sedere per vedere meglio il suo vicino di letto. Capì subito cosa non andava; del resto, aveva anche lui quel genere di seccature, durante la notte.
Allungò una mano e scostò le lunghe ciocche scure dal volto sudato di Jabura, portandone alcune dietro un orecchio. Aveva i capelli in totale disordine. Ma non spettava a lui rimediarci, e comunque, non c'era niente per legarli.
Quasi leggendo nei suoi pensieri, Hattori svolazzò pigramente sul cuscino di un letto vuoto e tornò con un fiocco di raso giallo nel becco. (Le bambine di San Popula adoravano Kumadori e quando non avevano monete da lasciare nel suo piatto delle offerte, lo riempivano con gli omaggi più disparati).
Lucci prese il nastro, non proprio convinto. Lanciò un'occhiata alla porta per assicurarsi che fosse ancora chiusa e poi tornò a guardare Jabura, esitante.
D'accordo. Ma lo faccio solo perché sono in debito.


***

CITAZIONE
«Jabura poi non ha nemmeno mangiato» sospirò Blueno, che aveva cucinato un bel brodo vegetale per tutti. «Mentre Lucci…»
«Yoyoi! C’è chi mangia, c’è chi beve, c’è chi fa quel che può. Non si giudichi, non si indichi, si soccorra soltanto il fratello che non può»

Da tutto il pomeriggio Kaku sentiva che stava dimenticando qualcosa. Anche adesso, mentre guardava Califa pulire il termometro che avevano acquistato coi loro ultimi berry in una farmacia poco distante da Dorsoduro, aveva la sensazione che mancasse una nota importante nella lista delle cose da fare, ma proprio non riusciva a ricordare...

«Lucci non lo userà mai dopo che lo ha messo Jabura. Chapapa!»
«Mangia con la bocca chiusa, tu...»

Gli antibiotici li avevano; garze e disinfettante, pure; e le infermiere dell’ospedale erano state così gentili da regalare loro tre confezioni da cinque metri di bende in cotone (che non sarebbero comunque bastate per sostituire tutte le fasciature di Lucci e Jabura, l’indomani, ma era sempre un inizio): sul fronte medicinali erano messi discretamente bene.
Diversa era la situazione provviste, di cui erano a corto. Però Kumadori aveva rimediato del pane bianco, ed era avanzato un bel po’ del brodo cucinato da Blueno, dal momento che Lucci ne aveva assaggiato a stento due cucchiai e Jabura non ne aveva mangiato affatto (colpa dei farmaci che toglievano l’appetito, supponeva).
Quindi non era il cibo. Stava tralasciando qualcos'altro...

«Basta con queste molestie sessuali! Lucci...»

Kaku smise di rimuginare per voltarsi nella stessa direzione della collega, nervoso almeno quanto lei. Non era per la febbre, né perché temeva veramente che Lucci rifiutasse di usare lo stesso termometro di Jabura.
Era per... beh, per tutto il resto!
Perché Lucci era rimasto chiuso in un mutismo quasi assoluto da quella mattina. Perché non si sforzava neanche un po’ di nascondere quanto trovasse degradante la loro condizione. Perché quando Kaku aveva trovato il coraggio di spiegargli del bagno e di come andava utilizzato, quello lo aveva incenerito con uno «Stai scherzando?» che aveva fatto venire la pelle d'oca pure ai santi dipinti negli affreschi.

«Non ho la febbre.»
«Dobbiamo comunque controllare: ordine del primario.»
«Chapa! Io l’ho detto che non l’avrebbe usa-»
«Se hai finito di mangiare, puoi iniziare tu il turno di guardia.»
«Ma sta per scoppiare un temporale, e poi stasera tocca a Kaku! Chapapa!»
«PIOVEEE!! Piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggieri... YOYOI!»


Lucci sbuffò e allungò il palmo aperto verso Califa, in attesa del termometro. Non gliene importava nulla che l’avesse usato Jabura prima di lui, il fatto era un altro: non era abituato a quel genere di premure. Constatare come per tutti loro, invece, fosse così normale prendersi cura l’uno dell’altro, convivere sotto lo stesso tetto, lo destabilizzava al punto da chiedersi se i suoi tre giorni di coma in realtà non fossero stati tre mesi.
Quante cose erano cambiate dal disastro di Enies Lobby?
Accantonando domande a cui non avrebbe trovato facilmente risposta, Lucci si rassegnò a misurare la temperatura (per lui fu più semplice: aveva una giacca sulle spalle e sotto indossava solo una camicia).
Fuori, intanto, la pioggia aumentava d’intensità, scrosciando contro il tetto della Cappella degli Accovati e battendo sempre più insistente sulle vetrate sudice del rosone.
Kaku, Fukuro e Kumadori dovettero presto correre ai ripari: sigillarono gli spifferi del portone di ingresso, rinforzarono le coperture alle finestre lungo la navata centrale, sistemarono un paio di secchi sul pavimento per raccogliere l’acqua che gocciolava in qualche punto dal soffitto.
Quando tornarono, col naso rosso per il freddo, Califa comunicò loro la buona notizia: «Trentasette e tre. Niente febbre.»
«MADRE MIA, IO TI RINGRAZIO PER QUESTO MIRACOLO!!»
«È solo il sistema immunitario differente...»
«Certo, chapapa! Perché Lucci ha più Doriki di Jabura!»
«Basta con questa storia, i Doriki non c’entrano nulla!»
«...Infatti anche tu non hai la febbre, Kaku. Chapapa.»
Di colpo, la vecchia porta di legno della canonica si spalancò e il boato sovrastò le chiacchiere. Fu però la folata di vento gelido a spegnerle del tutto, assieme alle candele.

«È andata via la luce!! Chapapa!!» Naturalmente, nessuno poteva zittire Fukuro per più di due secondi.
«Stai calmo, ho qualche fiammifero in tasca.»
«Accidenti... Deve aver ceduto uno dei pannelli alle finestre, il vento è troppo forte.»
«Smetti di muoverti, Kumadori! Non vorrai mica molestarmi?!»
Mentre gli altri si prodigavano a riaccendere le candele senza pestarsi i piedi a vicenda, Lucci rabbrividì e si strinse un po’ di più nella giacca. Il freddo era pungente e penetrava nelle ossa come una lama.
Cercò Jabura con lo sguardo: con la febbre che aveva, l’ultimo posto in cui avrebbe dovuto trascorrere la sua degenza era quella ghiacciaia a forma di chiesa.
«Parlavate di accendere un camino, quando siamo arrivati...» disse, rivolgendosi a Kaku, Califa e Blueno.
Per Kaku, fu come se qualcuno gli avesse acceso in testa la proverbiale lampadina:
«La legna per il camino! L’abbiamo lasciata sul retro!!»
Califa dimenticò le candele e si raddrizzò la montatura degli occhiali, allarmata. «Intendi fuori sul retro?»
Blueno aggrottò la fronte. «Non l’hai portata dentro?»
«Pensavo lo facessi tu, mentre noi andavamo in farmacia» Kaku sospirò, desolato «Volevo ricordartelo ma poi mi è sfuggito di mente.»
«Sicuri che sia rimasta lì?»
«Sì, chapapa. L’ho vista io!»
«E perché diavolo non l’hai portata dentro??»
«Era già bagnata!!»
«YOYOI!! RIFUGGITE LA COLLERA, RESPINGETE L'IRA, AMICI MIEI! MI ASSUMERÒ IO LA COLPA FACENDO...»

Nello schiamazzo generale, Lucci guardò di nuovo Jabura avvolto nelle coperte. Poi abbassò gli occhi in un misto di frustrazione e disappunto. «Siete certi che non ci sia altra legna, per stanotte?»
 
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view post Posted on 5/1/2019, 15:59
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2rr1bft ~ Jabura

Appoggiato al muro, doveva farla, maledizione!

Eppure non aveva scelta, a meno che non preferisse farla nel secchio dietro l’altare, e andarlo a svuotare dall’altra parte di Dorsoduro. Che poi in realtà non era “dall’altra parte”, era solo a poche centinaia di metri dalla chiesa, vicino alla fontanella; ma Jabura sapeva di non poter chiedere al proprio corpo, devastato dalla fatica e stretto nelle fasce, di percorrere tutta quella strada. Per di più nel cuore della notte, al buio perché i lampioni erano pochi e fiochi, e con un freddo che sembrava mordere le ossa, e all’uomo sembrava di percepire i propri muscoli stringersi per il freddo attorno alla spina dorsale, tutti rigidi e scossi da brividi.
L’unica alternativa era farla nascosto in un angolo, nel vicolo dietro la sagrestia, appoggiato al muro perché non riusciva nemmeno a reggersi in piedi senza che gli venissero delle terribili fitte alla testa, generosa eredità di una commozione celebrale.
Chiedere a Blueno o Kumadori di accompagnarlo? Puah! Cos’era, un poppante? Ce la faceva benissimo da solo, pensò rimettendo il vessato arnese al suo posto, coccolandolo distrattamente. Era ancora indolenzito, ma funzionava bene, per fortuna non c’erano stati danni importanti. Lucci aveva cercato come poteva di aiutarlo, ma purtroppo non era riuscito a fare altro che…

L’arnese, nel boxer, ebbe una sorta di sussulto al pensiero, e anche Jabura.

Poi una folata di vento gli placò gli spiriti, e Dorsoduro ricordò all’uomo che non si scherzava con il clima di San Popula: tornasse dentro, al riparo, prima che il vento e la pioggia gli penetrassero nelle poche ossa intatte che aveva.
Jabura tornò piano piano sul suo materasso, reggendosi ai muri lungo il cammino e fermandosi un paio di volte, ma alla fine riuscì a guadagnare le sue coperte. Aveva freddo, voleva solo il calore della vecchia lana e la morbidezza muffosa del materasso. Scansò abbastanza agilmente i compagni che dormivano, avviluppati come involtini nei loro plaid, controllò di sfuggita che Lucci avesse un respiro regolare e che fosse coperto, notò il biancheggiar placido di Hattori, e infine le coltri lo chiamarono, e lui rispose.

Si addormentò quasi senza accorgersene.

Ma quando si svegliò, se ne accorse eccome. Quanto tempo era passato? Un’ora? due? cinque? Spalancò gli occhi e vide nero: era ancora notte, e lui… lui stava gelando.
Che accidenti stava succedendo? Sentiva il proprio corpo tremare impazzito, i piedi nudi erano pezzi di ghiaccio, le mani erano fredde, l’aria che gli entrava nel naso era gelata, e gli raffreddava persino il volto… non aveva la febbre alta: era intontito, ma non tantissimo.

Che cazzo sta succedendo? La temperatura è scesa all’improvviso?

Si rizzò a sedere sul materasso con rapidità, e la testa fasciata protestò contro quel movimento.
I brividi non gli davano tregua, i denti battevano lui li strinse per non far rumore, ma controllò prima il suo branco: lui era l’unico sveglio, tutti dormivano tranquilli.
Il primo che controllò fu Lucci, che era anche il più vicino: gli sfiorò una spalla con due dita, leggerissimo, solo per percepire l’essenziale. Niente brividi, dormiva tranquillo e anche Hattori riposava beato, con il capino sotto l’ala; se l’uomo fosse stato male, il piccolino se ne sarebbe accorto immediatamente, e avrebbe svegliato pure le statue.
Anche Califa e Kumadori dormivano sereni, senza nessun problema.
Jabura nemmeno si prese la briga di controllare Blueno e Fukuro, ma andò verso il letto di Kaku, che era di guardia fuori, e prese la coperta del ragazzo. Si rimise a letto e si coprì anche con quella.

Ma i minuti passavano, e Jabura non riusciva a smettere di tremare. Era assurdo! La stanza era umida, piena di spifferi, ma non era così gelata! Lui invece tremava come in mezzo a una tormenta di neve, e non riusciva a calmare il proprio corpo.
Forse con il Tekkai sarebbe riuscito a imporsi un po’ di controllo, ma purtroppo non poteva eseguire nessuna tecnica: il rischio di riaprire i punti di sutura era troppo alto, e ora non c’era nemmeno un ospedale per poterglieli rimettere! Senza contare che non avevano i soldi per farlo curare.
Si strinse di più nelle coperte e cercò di imporsi la calma, ma le sue possenti membra non smettevano di tremare, e né le mani né i piedi riuscivano a scaldarsi.

Una parte della sua testa gli gridava “Devo svegliare qualcuno, devo chiedere aiuto a Califa o a Blueno”, parte che era generosamente messa a tacere dal: “Silenzio! È solo un po’ di freddo, posso resistere benissimo!”; quest’ultima parte era incoraggiata anche dal più razionale pensiero “Non posso svegliarli, sono tutti stanchi morti, dormire è l’unica cosa che ci possiamo permettere”.
L’unica speranza era Kaku, già sveglio di suo, ma era di guardia… chissà dove. Sul perimetro della chiesa, in qualche meandro nascosto del suo ventre antico e fatiscente, fra i vicoli che portavano fin là. Fuori discussione.
E poi, chiedere aiuto a Kaku?! Ma non scherziamo!

E allora?

Jabura si girò faticosamente sul fianco meno malridotto, cercando una posizione che mantenesse meglio il calore delle due coperte che aveva, ma non serviva a niente. Continuava a tremare di freddo, un freddo polare che pareva esistere solo per lui.

Che culo.

Forse era perché aveva mangiato poco…? Fanculo pure quell’ipotesi! A parte che non ce la faceva a mettere sotto i denti granché, a cena era prevalsa la stanchezza e la voglia di stare sdraiato, e poi cosa doveva fare? Togliere di bocca agli altri quel poco di pane che avevano?
Si avvolse di più nelle coperte, se le tirò fin sugli occhi nonostante l’odore nauseante di muffa. Il turno di Kaku sarebbe finito, prima o poi, e avrebbe dovuto cedergli di nuovo la sua coperta… come avrebbe fatto? Sarebbe riuscito a scaldarsi in tempo? Era terribilmente preoccupato, perché aveva la sensazione di stare sempre peggio.

Sospirò, e si trascinò con un sospiro vicino al camino. Non era un camino piccolo, anzi: Blueno lo usava persino per cucinare, riusciva a mettere sulla brace persino quell’unico pentolone che avevano. Jabura prese il vecchio attizzatoio e mosse un po’ la cenere, senza trovare braci ancora accese, così si voltò verso il cestino dove tenevano la legna.
Prese in mano un ciocco di legno, ma lo trovò freddo e umido.
CITAZIONE
«La legna per il camino! L’abbiamo lasciata sul retro!!»



Porca.

Troia.

Era fradicia!, pensò Jabura ricordandosi tutti gli schiamazzi che si era sorbito mentre tentava di dormire, quel pomeriggio. Maledizione, ci mancava solo quello! Kaku, coglione! Come aveva potuto dimenticarlo?!
Un fremito smorzò la rabbia di Jabura.
Non riuscì ad avercela completamente con Kaku: “come aveva potuto dimenticarlo?” beh, c’erano un bel po’ di cose a cui pensare, in quel momento. La testa di tutti quanti era affollata di pensieri e preoccupazioni, con lui e Lucci a terra, e Kaku stesso che non era nelle sue condizioni migliori. E senza casa. Senza soldi. Con il Governo a dar loro la caccia.
Jabura si alzò piano, e si strinse nella coperta che aveva addosso come in un mantello.

La treccia chiusa da un fiocchetto giallo ondeggiò sulle sue spalle. Buffo, non ricordava di essere riuscito a legarsi i capelli: quando ci aveva provato, le braccia e i punti avevano protestato, e aveva dovuto arrendersi prima ancora di cominciare. L'intreccio era stretto e ordinato ma, chiunque fosse stato il parrucchiere, era stato ben attento a non fare una classica treccia stretta, di quelle che tiravano i capelli. Sicuramente non era stata Califa: lei non sapeva intrecciare, per questo da quando erano piccoli usava i cerchietti. Più probabile Kumadori, che invece con i capelli era un mago, però Jabura lo conosceva abbastanza per sapere che aveva strane opinioni sulle acconciature: diceva che imprigionavano l'anima e il coraggio dei capelli, o qualche merdata del genere. Chi rimaneva? Fukuro era fuori discussione, stessa cosa Blueno, il cui migliore amico era il gel ad altissima tenuta. Kaku aveva i capelli corti fin da bambino, improbabile come per Fukuro. Lucci? Jabura prima pensò che era abbastanza pignolo da fare una treccia così precisa, però era impossibile, veramente impossibile, che gli intrecciasse i capelli come una donnicciola di campagna!

Ma il pensiero della treccia distrasse Jabura per pochi secondi: i brividi non gli davano tregua, e ricominciò a pensare alla legna umida e inutile tra le sue mani. Non aveva nemmeno la forza per essere arrabbiato con Kaku. Lasciò cadere il ciocco nella cesta e si appoggiò alla mensola del camino a due mani, quando le gambe dettero cenno di cedere.
Riusciva a sentire tutto il freddo di quei maledetti vecchi lastroni di pietra, attraverso le sue vecchie scarpe. E magari sotto c’erano pure seppellite delle persone!, pensò.

Poi tornò sul suo letto, ci si sedette sopra, e si tirò le coperte sopra la testa per cercare di scaldarsi col suo stesso respiro. Si prese i piedi nudi tra le mani per tentare di scaldarli, ma erano pezzi di ghiaccio e gli facevano quasi male.
Strinse i denti, sforzandosi di non farli di nuovo sbattere tra loro, col rischio di svegliare uno dei compagni che dormiva.
 
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view post Posted on 29/1/2019, 22:01
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Rob Lucci

Più o meno nel momento in cui Kaku perlustrava il vicolo dietro la sagrestia (lo stesso che più tardi avrebbe percorso anche Jabura), mentre Hattori si appallottolava sulle coperte fino a diventare un batuffolo di piume e Fukuro cominciava a russare così forte da coprire i fischi del vento, Lucci si addormentò. Non ci avrebbe creduto neppure lui, non in una situazione del genere, non con quell'avvicendarsi di pensieri in testa, ma dormì abbastanza profondamente da non accorgersi né del freddo, né di Jabura che si alzava dal letto. Non avvertì nemmeno il tocco del rivale sulla spalla -e se anche lo avesse percepito, sarebbe stato incapace di distinguerlo da un innocuo movimento di Hattori sulla sua postazione preferita. La stanchezza alla fine si era impossessata anche della sua mente, esausta e travagliata.

Poi un rumore, nel cuore della notte, lo riscosse. Un suono attutito ma in qualche modo stonato tra le note sibilanti del vento e della pioggia battente; qualcosa di simile a un piccolo tonfo, all'interno della cappella.
Lucci dischiuse le palpebre, non del tutto sveglio e quasi sicuro di essersi sbagliato. Era molto più probabile che qualcosa fosse caduto là fuori, dove il temporale fustigava senza tregua il vecchio e dismesso quartiere di Dorsoduro.
Sopraggiunsero dei passi, lenti e strascicati. C'era davvero qualcuno, in piedi, nella canonica... e a giudicare da come zoppicava, aggirando i giacigli dei compagni addormentati per tornare al suo materasso, non poteva che trattarsi di una sola persona.

Degno della tua intelligenza, andarsene a zonzo a quest’ora, da solo, in quelle condizioni, pensò Lucci critico.
Ma subito la mente lo riportò alla desolante realtà, alle vecchie coperte come unica protezione dal freddo pungente di San Popula, ai respiri profondi dei compagni che non avevano potuto concedersi il lusso di riposare nell'ultima, sfiancante giornata; e dedusse che no, non poteva biasimare Jabura. Anche lui avrebbe preferito trascinare le sue ossa malandate per tutta la chiesa, piuttosto che svegliare gli altri.
Tenne d'occhio il Lupo finché non vide la sua sagoma sedersi sul letto e sparire sotto le coperte, chiedendosi il motivo di quell'insolita escursione notturna. Forse doveva andare in bagno. Beh, in tal caso, Lucci preferiva non sapere se avesse seguito o meno il protocollo per l'uso del bugliolo dietro l’altare.
Scacciò il pensiero e richiuse gli occhi, sicuro di riprendere sonno in fretta, ma dopo pochi secondi li riaprì. Sentiva ancora un rumore soffocato, o era una sua impressione?
Lentamente, per non svegliare Hattori che gli dormiva accanto, sollevò la testa dal cuscino e guardò Jabura. O meglio, guardò il cumulo di coperte e tentò di figurarsi Jabura lì sotto, rannicchiato in una posizione assurdamente dolorosa per le sue costole rotte.
«Ehi.» Mormorò «Che ti prende?»
Non era certo che l’altro lo avesse sentito.
Lo studiò con più attenzione; un bagliore felino gli riempì le pupille dilatate, sfolgorando nel buio compatto della notte. Alla fine Lucci si tirò su a sedere, e stavolta non prestò attenzione a non svegliare Hattori.
Jabura stava tremando.
Sordo alle flebili proteste del colombo e del suo corpo dolorante, Lucci sgusciò fuori dal letto per avvicinarsi al compagno. Era così imbozzolato tra le coperte (quante diavolo ne aveva, addosso?) che nemmeno si capiva da che parte avesse la testa!
Abbassò i vecchi plaid fino a quando il volto di Jabura emerse, più pallido che mai, tra i capelli arruffati e in parte sfuggiti dalla treccia. Non aveva affatto una bella cera, e Lucci non si sorprese di sentire che la fronte gli scottava. Più o meno rispetto a quel pomeriggio? Difficile stabilirlo. Comunque, anche se avesse svegliato Califa per scoprire che gli era venuta una febbre da cavallo, non c’era molto che potessero fare; Jabura era già stato imbottito di farmaci, l’ospedale era ridotto a un mucchio di macerie, e a San Popula il servizio sanitario non faceva beneficenza.
Forse avrebbe dovuto mettere da parte le questioni personali e accettare il ricovero in clinica, a Water Seven...
È tardi per i ripensamenti. Sta gelando.
Jabura, infatti, continuava a rabbrividire, e con una violenza tale che in certi momenti Lucci poteva sentirgli battere i denti.
Cercò a tentoni le mani dell’uomo per scoprirle freddissime, a dispetto di tutti gli strati di lana sotto cui le aveva sepolte... Ma, oh, i suoi piedi se la passavano addirittura peggio.
Lucci sbuffò tra i denti, afferrò il plaid dal suo letto per aggiungerlo al cumulo di coperte e coprì Jabura fino al mento, sentendosi proprio come quella mattina, nell’ambulatorio, quando il bastardo si era beccato un dardo avvelenato nel petto: la persona maledettamente sbagliata nel momento disperatamente giusto.
Passò in rassegna i colleghi addormentati, mentre nuvolette di condensa accompagnavano il suo respiro e minacciavano di farlo rabbrividire a sua volta.
Kumadori? Era perfetto. Sarebbe stato ben felice di scaldare Jabura in un abbraccio, ma svegliare lui equivaleva a svegliare tutto il gruppo.
Califa? Si era già presa cura di Jabura e di sicuro avrebbe continuato a farlo col massimo scrupolo, nei giorni a venire, ma chiederle di dormirci insieme, nello stesso letto, era pura follia.
Fukuro? Mm. No.
Blueno? Non si sarebbe lamentato, non avrebbe gridato alla molestia sessuale, né avrebbe raccontato a tutti i mercati, le piazze, le pescherie di San Popula, il mattino seguente, che Rob Lucci si era preoccupato per l’acerrimo rivale. Poteva andar bene. Però restava il fatto che l'ex barman di Water Seven non dormiva da diciotto ore, e Lucci era pronto a scommettere che l’indomani sarebbe stato il primo ad alzarsi per rimediare la colazione.
Non era giusto. Non era giusto chiederlo nessuno di loro, tanto meno a Kaku che era di guardia, sotto la pioggia.
Tornò a voltarsi verso Jabura, a cui le coperte sembravano non dare il minimo sollievo. Ripensò a quando lui lo aveva stretto durante il crollo dell’ospedale, chiusi in quel frigorifero... In certi momenti, aveva appurato, avere accanto la persona più sbagliata del mondo non faceva poi così schifo. Jabura avrebbe sopportato. E quanto a lui... beh, dopo tutto ciò che aveva fatto grazie alla Regina di Primavera, non si sarebbe scandalizzato per così poco!
L'unico problema era la stanza, troppo affollata per i suoi gusti. Perché se la Regina di San Popula non aveva un pudore, come aveva ampiamente dimostrato, lo stesso non si poteva dire di Rob Lucci.

Solo per un po', si risolse l'ex agente, portandosi all'altra sponda del letto nel massimo silenzio. E se non funziona, con Blueno valuteremo il da farsi.
Un'altra cauta occhiata a Fukuro. Un'altra ancora, più veloce, al resto del gruppo. Un respiro nervoso, e Lucci s'infilò sotto le coperte, dritto dentro la tana del Lupo.
«Resto qui per un po'...» gli disse sottovoce «non costringermi a svegliare gli altri.»
Con una manovra che gli parve quasi più complessa del primo Kami-e della sua carriera, Lucci si strinse di più a Jabura e si premette la sua schiena contro il petto. Rabbrividì, senza sapere perché. (Non che la cosa gli importasse: in quel momento, era solo sollevato di non dover guardare l'altro in faccia). Sembrava di abbracciare un ghiacciolo, il che era preoccupante, considerando quanto fosse anomalo per quella testa calda. Jabura era fuoco vivo nell'indole e nel temperamento, da che Lucci lo conosceva. Per non parlare di quanto era diventato caldo quella mattina, mentre il tentacolo... mentre lui...
Respinse quel ricordo con tutte le sue forze, irrigidendosi come per parare un pugno invisibile.
Due occhietti neri e acuti fecero capolino dall'orlo delle coperte. Hattori lo fissò prima con curiosità, poi con manifesto stupore, spostando la testolina ora su di lui, ora su Jabura.
Non ti ci mettere anche tu! fu la muta risposta di Lucci. Non potevo lasciarlo così.
Il colombo forse non afferrò l'imbarazzo, ma comprese la difficile situazione. Zampettò sulle coperte e, proprio come se dovesse covare sul suo nido, si accoccolò ai piedi di Jabura.
 
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view post Posted on 8/4/2019, 02:03
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CITAZIONE
«Ehi.» Mormorò «Che ti prende?»

Merdamerdamerdamerda! L’aveva svegliato! Anzi, tra tutti, aveva svegliato proprio Lucci! Beh, aveva il letto proprio di fianco al suo.
Jabura decise di negare, negare fino alla morte: non riemerse dalle coperte, si finse addormentato, si finse immerso in un beato sonno che era una palese bugia, perché ormai tremava troppo forte perché qualcuno come Rob Lucci potesse bersela.
Sentì le coperte che venivano scostate, l’aria gelida della canonica graffiargli la pelle. «Che cazzo stai facendo?» sibilò aggressivo, ma in un secondo le mani di Lucci, solide, magre, caldissime, strinsero le sue. Jabura quasi si sciolse, a quel tocco, la rabbia si trasformò in qualcosa che il Lupo non seppe esattamente tradurre, ma una cosa arrivò chiarissima al suo cervello: calore.

Le mani di Lucci erano calde, e le sue le cercavano disperatamente.

«Ehi ehi ehi! Non- che accidenti!?» balbettò confuso. Che diavolo stava succedendo? Aveva freddo anche lui e voleva infilarsi nel suo bozzolo caldo?
Lucci tolse altre coperte e arrivò a toccargli i piedi, che ormai erano rigidi e facevano male, erano come fatti di ghiaccio, e contemporaneamente ci fossero spilloni di ghiaccio a perforargli le ossa. Le mani del compagno erano una fiammella nel gelo, e Jabura non riuscì a non sentirsi sollevato per quel tocco inconsistente, minuscolo, che ebbe.

«Sto benissimo, lasciami stare.» biascicò ancora, battagliero.

Sospirò soddisfatto quando sentì che le coperte venivano rimesse a posto e rimboccate. Oh, perfetto. Non aveva mica quattro anni, non era un bambino. Poteva cavarsela da solo, non aveva bisogno della carità di quel maledetto idiota che-

Frup

Fu più o meno questo il rumore del plaid che gli venne depositato addosso. Un’altra coperta, un’altra possibilità di riscaldarsi.
Ma non c’erano coperte extra, questo Jabura lo sapeva benissimo. Spalancò gli occhi, indeciso sul da farsi: non poteva, non doveva prendere la coperta di Lucci! Col freddo che c’era, anche lui aveva bisogno di calore, non doveva rimanere al freddo! Con tutta la fatica per rimetterlo in piedi!

Una voce saggia nella testa prese la parola: “Sei tu che hai bisogno di aiuto. Lucci se la caverà, per qualche ora. Tu stai troppo male, tieniti la coperta in più e spera che funzioni!”
Così Jabura rimase immobile ad aspettare.

Ma non funzionava.

I piedi non si riscaldavano, le mani rimanevano di ghiaccio, i brividi lo costringevano a rimanere rannicchiato, ma più tremava e più le costole sembravano conficcarsi nei suoi organi e i punti di sutura tirare orribilmente la carne viva.
Califa. Doveva svegliarla. Non avrebbe mai voluto, quella donna doveva riposare, ma non aveva idea di cosa gli stesse succedendo e cominciava ad avere paur-

CITAZIONE
«Resto qui per un po'...»

sentì all’improvviso.
Si girò verso il collega cominciando a dire: «In che senso?» che cazzo diceva? “resto qui”? certo che resti qui, maledetto cretino, dove vorresti andartene!?
E poi:
CITAZIONE
«Non costringermi a svegliare gli altri.»

Le coperte si sollevarono, l’aria fredda entrò nel letto ghiacciato e poi, come un’onda calda, arrivò il calore del corpo di Rob Lucci.
«Sei impazzito?!» sibilò il Lupo, sentendo i peli che gli si rizzavano su ogni centimetro quadrato di pelle.

Da dietro, come un amante in vena di dolcezza.
Le braccia robuste lo attrassero a sé, stringendo delicatamente il petto fasciato.
Poi Lucci tirò sopra entrambi le coperte, e allora, solo allora, Jabura sentì di perdere completamente il controllo della sua mente e del suo corpo.

Il cervello, che prima pigolava impazzito cose sull’essere froci, si spense del tutto e captò solo una cosa: caldo.
Calore.
Tepore.
Il suo corpo continuava a tremare, ma era stretto nella morsa ferrea e controllata di Rob Lucci e, come se fossero intimoriti da quell’austera presenza, i brividi violenti divennero più deboli, cominciarono a spegnersi a mano a mano che sotto le coperte veniva a crearsi un clima dolce, accogliente, caldo.

Per alcuni istanti non gli importò di quanto ambigua fosse la situazione, di quante malattie infettive portassero i gatti, di quanto gli piacessero le donne e non il corpo innegabilmente scultoreo di Rob Lucci.
L’unica cosa che contava era che quel corpo era caldo.
Tremendamente caldo.

Jabura non aveva mai immaginato quanto un’altra persona potesse essere rovente, però pensò, con un minimo di lucidità, che probabilmente la temperatura di Lucci era nella norma o di poco superiore; era lui ad aver avuto un picco vertiginoso.
Fece un sospiro. Sentì i propri muscoli rilassarsi contro il petto vigoroso del collega. Ogni tanto un brivido tornava all’assalto.
Poi il cervello tornò attivo, le rotelle ripresero a girare.
I piedi erano ancora freddi.
Beh, pensò Jabura, già che ci siamo…

Piegò leggermente le ginocchia e subito trovò i piedi di Lucci, avvolti probabilmente in calzettoni di spugna. Belli caldi, pure loro. E poi sentì un lieve peso depositarsi sui piedi, e immediatamente arrivò altro tepore sulle sue membra; tirò fuori il naso dalle coperte e, nel buio, biancheggiava un uccellino bianco.

«Ah beh» biascicò alla fine, forse per cercare di smorzare l’imbarazzo. «Mi avete fatto prigioniero.»
Sospirò. Ma non era un po’ da gay, quella situazione?

Forse, però non poteva che ammirare il senso pratico di Lucci, persino in un momento così scabroso. Svegliare gli altri, dopo la giornata che avevano avuto, sarebbe stato da sadici; lasciarlo in quelle condizioni, col rischio che si aggravassero, sarebbe stato da incoscienti. L’unica soluzione era scaldarlo col proprio corpo, e vaffanculo a ogni senso del pudore.

All’improvviso, come usando una versione depotenziata e quasi innocua del Kami-e, Jabura si girò su se stesso, e si trovò faccia a faccia con Rob Lucci.
«Non fare l’educando, hai cominciato tu» disse il Lupo, spiccio. «Ho le mani ghiacciate, e prima si scaldano, prima ci leviamo da questa situazione, ok?»
E così facendo Jabura mise le mani tra i suoi addominali e quelli di Lucci, attento a fare slalom tra le ferite che avevano; ci mancava solo di sfiorarle e far riaprire i punti! Intrecciò anche le gambe con quelle del collega, Hattori sobbalzò al movimento ma poi tornò a posarsi mansueto, e infine si accoccolò con la testa sotto quella di Lucci, più sprofondato che mai nelle coperte, con il naso contro la felpa dello storico rivale.
E infine disse, romanticissimo: «Puzzi da vomitare.»
Però era caldo. Meravigliosamente caldo.
Jabura non fece nemmeno in tempo a rendersi conto del suo corpo che riprendeva calore, che venne risucchiato dalla stanchezza in un sonno profondo e tranquillo.

In mostruoso ritardo, forse il peggiore che la role ricordi... ma ci sono!! non mollo!! E nemmeno Jabura!
 
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view post Posted on 27/6/2019, 20:03
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Rob Lucci

CITAZIONE
«Ah beh» biascicò alla fine, forse per cercare di smorzare l’imbarazzo. «Mi avete fatto prigioniero.»

Non sembra proprio che ti dispiaccia, pensò Lucci, constatando come i brividi di Jabura stessero già affievolendosi.
Gli avrebbe anche ricordato che tutto sommato era meglio una calda prigione ad una crisi di ipotermia, ma di lì a un secondo perse ogni facoltà di parola: Jabura si era voltato all’improvviso e ora si trovava faccia a faccia con lui, così vicino che le punte dei loro nasi si sfioravano.
Una sentinella d’allarme prese a strepitargli nei meandri del cervello e Lucci sentì fortissimo l’antico, familiare impulso di tirare al rivale un pugno sul muso. Non perché mosso da un pensiero ponderato, ma per biologico istinto; perché quando il lupastro invadeva il suo spazio personale (quasi sempre ringhiando, imprecando e minacciando di ammazzarlo male), lui era chiamato a rispondere, passando dalle minacce verbali ai fatti. Dovette perciò lottare contro la sua stessa natura per restare immobile in quella posizione e proibirsi di mandare all’aria tutti i buoni propositi di non svegliare gli altri.

CITAZIONE
«Non fare l’educando, hai cominciato tu» disse il Lupo, spiccio. «Ho le mani ghiacciate, e prima si scaldano, prima ci leviamo da questa situazione, ok?»

Lucci tornò a respirare, rendendosi conto solo adesso di aver trattenuto il fiato.
Jabura aveva ragione. Questo non rendeva le cose meno scabrose, no di certo, ma lui era un uomo troppo razionale per abbandonare il modo più sensato di agire solo perché vittima di un attacco di imbarazzo acuto. Perciò non disse nulla mentre il Lupo infilava le mani ghiacciate tra i loro addomi; perciò lo lasciò fare mentre intrecciava le gambe con le sue, limitandosi a controllare il suo battito e a concentrarsi su un punto fisso nel buio.
Paradossalmente, anche se le membra di Jabura erano intirizzite dal freddo, lui cominciò a sentirsi accaldato e per la prima volta, quella notte, si trovò a ringraziare l’aria fredda della canonica che gli rinfrescava il volto.

CITAZIONE
«Puzzi da vomitare.»

Ci vollero un paio di secondi perché il messaggio pervenisse. Poi Lucci distese le labbra in un ghigno.
«È per metterti a tuo agio.»
L’ironia fu che nella sua impudente e irrefrenabile idiozia, Jabura riuscì a mettere lui un po’ più a suo agio: in un certo senso, restituiva una parvenza di normalità ad una situazione totalmente straniante.
Si rilassò e rimboccò meglio le coperte all’altro, attento ad ascoltare il suo respiro mentre si addormentava.
Attese tre, forse quattro minuti.
Jabura era ancora infreddolito, ma i brividi sembravano scomparsi del tutto e il petto gli si alzava e abbassava col ritmo lento e cadenzato di chi è già scivolato in un sonno profondo. Doveva essere sfinito. Ben più di quanto desse a vedere agli altri e persino più di quanto Lucci avesse ipotizzato, sforzandosi di leggere oltre la sua maschera di bugie e fanfaronate.
«Idiota» mormorò piano, ma c’era solo il silenzio ovattato della canonica ad ascoltarlo.
Strinse il corpo del rivale a sé, fino a sentirne la testa incastrata contro il proprio collo. Poi, senza intenzione, chiuse gli occhi.
Fino a quel momento non si era reso conto di quanto fosse piacevole quel tepore, capace di conciliargli il sonno meglio e più dolcemente di un anestetico generale; però non era il caso di addormentarsi lì. Era stanco anche lui, e non era affatto sicuro di riuscire a svegliarsi prima dei compagni il mattino seguente, o almeno in tempo da scampare alla civetteria di Fukuro.
Sollevò le palpebre, pesanti come certe vecchie serrande sulle finestre del centro storico di Water Seven. Doveva alzarsi, ma non voleva che Jabura ricominciasse a tremare non appena si fosse allontanato.
Altri cinque minuti, stabilì alla fine.
Solo cinque minuti, solo perché era in debito.

Il temporale che si era abbattuto quella notte su Dorsoduro, frattanto, andava placandosi: il vento soffiava nei vicoli senza più ululare; la pioggia batteva contro le mura producendo appena un brusio di sottofondo. Di tanto in tanto, qualche goccia s’infiltrava dal tetto della Cappella e levava un minuscolo plic, tuffandosi dentro una pozzanghera di acqua piovana.
I sospiri appagati di chi dormiva –specie di chi lo faceva con la bocca aperta, o mormorando preghiere sconnesse in sogno– erano più rumorosi, adesso, ma l’attenzione di Lucci restò focalizzata unicamente su quel gemitio distante e appena percettibile.
Plic.
Quanti minuti erano passati?
Non ne aveva idea. Non gli sembrava nemmeno più così importante.
Gli importava solo del rumore.
Cercava di decifrarlo e più lo ascoltava, più aveva l’impressione che non si trattasse di pioggia.
Era piuttosto simile a...
Plic. Plic.
...un rubinetto che perdeva.
Voltò la testa e vide, in effetti, che il lavandino del piccolo ambulatorio medico gocciolava perché non l’aveva chiuso fino in fondo.
Inspirò l’aria umida che odorava dell’aroma selvatico di piante esotiche e tornò a guardare di fronte a sé, verso il lettino dell’anestesista.
Jabura lo fissava seduto lì, in attesa, la fronte imperlata di sudore e i capelli neri, lunghissimi, liberi di ricadergli sulle spalle e sui pettorali possenti.
C’era una luce strana in fondo al suo sguardo; c’era qualcosa di singolare anche nella stanza, che era sì in disordine ma incredibilmente silenziosa: non un richiamo concitato dall’esterno dell’ospedale, non un tremito dell’edificio in procinto di crollare, non un tentacolo vegetale nei paraggi. Beh, a parte quello in mezzo alle gambe del Lupo, naturalmente.
«Ci sono quasi.» Fece Lucci, dimentico di quella sensazione d’anomalia, tornando a ciò che stava facendo.
Jabura masticò tra i denti una risposta che sapeva più di un insulto che di una esortazione.
Lucci non badò nemmeno a quello e insinuò le dita sotto il tentacolo, sentendo la pelle bollente dell’altro fremere al suo tocco. Tentò di sbrogliare la matassa che la pianta aveva creato, ma lo spazio era stretto, l’erezione gonfia e pulsante; c’era troppo poca libertà di manovra.
Per fortuna le sue mani non tremavano, la sua mente era lucida e il suo corpo, libero da ferite e fasciature, aveva il pieno controllo del Felis Felis.
Richiamò i poteri del frutto del diavolo poco a poco, fino a sentirsi formicolare piacevolmente le punte delle dita. Jabura fece un verso soffocato, di impazienza, che lo irrigidì tanto da trasmettere parte di quella tensione anche a lui, quasi stesse armeggiando con cavi di corrente elettrica a basso voltaggio.
Gli artigli sottili e affilati di Lucci tagliarono il tentacolo con precisione clinica, ben attenti a salvaguardare tutto il resto, per poi sparire rapidamente a lavoro finito.
Lucci sfilò i resti inerti del tentacolo dal sesso del rivale, tutt’altro che inerte. Non fece in tempo a chiedersi come avrebbe fatto a camminare in quello stato che la mano di Jabura si serrò sul suo polso, impedendogli di ritrarsi.
«Cosa...»
«Non ti fermare.»
Lucci lo guardò, sgomento.
Non era certo di averglielo sentito dire per davvero, ma era sicuro del messaggio che mandavano i suoi occhi, così neri e penetranti che avrebbero potuto inghiottire la notte insieme a tutti i suoi astri.
Devi fermarti subito, invece! gli avrebbe imposto il buonsenso; la voce della ragione però dormiva in una realtà molto distante da lui, infagottata tra le logore coperte di un dormitorio in una chiesa sconsacrata.
Senza esitare un secondo di più, Lucci strinse le dita attorno all’erezione di Jabura e compì un movimento deciso, dal basso verso l’alto.
Il respiro del Lupo si spezzò; poi la mano di Lucci si mosse di nuovo, in senso opposto, e l’altro emise un sospiro di piacere che fece indurire lui, inaspettatamente.
Era sbagliato?
Era il genere di cose di cui si sarebbe pentito per il resto dei suoi giorni?
Tutte domande che, se arrivarono a prendere forma in Lucci, non vinsero il desiderio prepotente di sentire Jabura eccitarsi ancora tra le sue mani.
Iniziò a muoversi più in fretta, più forte, fremendo quando il rivale si lasciava sfuggire un gemito o gli affondava le unghie nella pelle senza riuscire a controllarsi.
Ci stava prendendo gusto, ma non andò avanti per molto. La Regina di Primavera doveva averlo già sollecitato per bene, perché dopo un altro, vigoroso colpo di polso, Lucci lo sentì contrarsi e venire in un’esplosione di calore nella sua mano. Come ipnotizzato, contemplò il volto di Jabura mentre si abbandonava all’orgasmo e per un breve, ma lucido istante, lo trovò oscenamente bello coi capelli in disordine sparsi sulle spalle e gli zigomi in fiamme.
«Ti stai divertendo?»
La voce dell’altro lo smosse, ma non fu nulla di paragonabile alla scarica elettrica che lo trapassò quando Jabura afferrò la sua erezione, attraverso la stoffa dei pantaloni.
«...Pare proprio di sì!»

Lucci sussultò, svegliandosi di soprassalto.
Sulle prime non distinse il sogno dalla realtà, troppo stordito dalla risata irriverente che gli rimbombava in testa e dal cuore che gli martellava impazzito nel petto. La vista di Jabura che dormiva beatamente accanto a lui –no, abbracciato a lui– non rese poi la situazione più chiara. Tutt’altro.
Si allontanò di scatto, rasentando il panico, e una stilettata di dolore lo trafisse a un fianco.
C’erano due notizie, dunque: la cattiva era che nella realtà aveva appena iniziato a fare i conti con una lunga e difficile convalescenza; la buona era che aveva solo sognato di masturbare lo storico rivale di tutta una vita, traendo piacere nel farlo.
Però lo stava ancora scaldando di buon grado a giudicare dalla posizione del suo braccio, allacciato pigramente alla vita del Lupo.
Lucci fu lì lì per scattare di nuovo e schizzare fuori dalle coperte, infischiandosene del dolore, di che ore fossero, del fatto che gli altri compagni dormissero a tre passi da lui. A fermarlo, solo l’idea che alzandosi di colpo avrebbe sicuramente finito per svegliare Jabura... e l’ultima cosa che voleva adesso era incrociare il suo sguardo.
Si costrinse ad agire al rallentatore. Sfilò prima le braccia e poi le gambe dal corpo dell’altro con la leggerezza tipica di un felino, sforzandosi di non pensare, di non farsi domande, di non cercare connessioni logiche per dare un senso alle sue fantasie. Quando fu fuori dalle coperte, Hattori si posò prontamente sulla sua spalla: era arzillo e pimpante, come tutti gli uccellini alle prime ore dell’alba.
Lucci lanciò un’ultima, diffidente occhiata al Lupo e lasciò la canonica in silenzio, diretto alla fontanella poco distante dalla chiesa, mentre a est di San Popula un pallido sole ammiccava già tra le nuvole.


Pure io in ritardissimo, ma non si molla niente!!
Per la cronaca: tutto il trip del sogno erotico è partito da una scena («Non ti fermare») che avevi pensato tu e che era troppo bella per restare solo un'idea. Spero non ti disturbi!
 
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view post Posted on 12/9/2019, 13:13
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2rr1bft ~ Jabura

Blueno si svegliò quando Rob Lucci, nell’uscire, posò il piede su una mattonella sconnessa che c’era a metà della navata centrale, verso l’ingresso della chiesa, in corrispondenza di una nicchia con dipinto un corteggio di angioletti attorno a una figura femminile annerita dal tempo e dall’umidità. In realtà l’ex oste di Water Seven era già in quella fase in cui il corpo lentamente cominciava a svegliarsi, e il rumore della mattonella scheggiata aveva dato il colpo di grazia a un risveglio già avviato. Del resto, lui quando viveva a Water Seven, si svegliava sempre presto per avviare la giornata dell’osteria, e chissà quando gli sarebbe andata via l’abitudine di svegliarsi alle prime luci dell’alba.

Non si stupì che Lucci avesse deciso di uscire da solo e senza riguardi per la propria convalescenza: oltre al fatto che era un adulto fatto e finito, non aveva il temperamento adatto per rimanere a letto e farsi imboccare la minestrina. E poi, tutti quanti loro preferivano la fontanella del vicolo al secchio maleodorante che c’era nello stanzino.

Blueno sorse dal letto, mogio mogio, e studiò la situazione della camera alla pallida luce dell’alba: Fukuro di guardia, il letto di Lucci vuoto e sfatto perché lui era fuori, Califa arrotolata in una coperta, Kumadori che dormiva a stella con braccia e gambe fuori dal materasso, e Kaku che nel sonno era riuscito ad abbracciare il suo bastone. Osservò con più attenzione Jabura, che era uscito particolarmente male dalla giornata precedente: doveva aver passato una nottataccia, perché il suo letto sembrava il campo di battaglia di due animali, con le lenzuola fin troppo in disordine per una persona sola. Doveva essersi mosso parecchio, pensò l’oste.
Guardò ancora tutti i compagni che dormivano, e pensò che fra cinque minuti sarebbe andato alla fontanella a controllare che anche Lucci stesse bene, se non fosse tornato. Rifletté: c’era bisogno urgentemente di cibo, ma erano quasi del tutto al verde.

Decise di usare il suo Door-Door: molte stanze della chiesa erano chiuse o addirittura murate, oppure inaccessibili a causa di qualche crollo, ma lui aveva bisogno di alcuni oggetti per procurare un buon pranzo a tutti quanti.
Andò su e giù per le antiche stanze, e si arrampicò fin sul campanile, nella vecchia canonica, esplorò la sagrestia, e arrivò a quella che doveva essere stata la casa del parroco. Dunque lì dov’erano non era l’appartamento vero e proprio, ma solo una sorta di foresteria? Tornò nel dormitorio, tra i suoi compagni, e prese dall’armadio dei paramenti una delle tonache consunte che erano rimaste lì e, fatto uno strappo, la scucì fino a ottenere un filo lungo svariati metri; poi tornò alla sua esplorazione.
Gira e rigira, buca e risbuca, trovò un lungo filo di ferro e lo lavorò fino a ottenere un piccolo amo a tre punte. Uscì fuori, e il sole del mattino diventava via via più tiepido. Si guardò bene attorno per paura della Regina di Primavera, ma non sembrava essercene traccia. Si diresse verso il mare, dove c’era la foce di un torrentello, e vide un bel canneto che faceva al caso suo: prese una canna, le tolse tutte le foglie, ci attaccò il filo della vecchia tonaca e al filo ci attaccò l’amo. Infilò all’amo un pezzo di prosciutto che era miracolosamente stato salvato la sera precedente, si sedette su uno scoglio in riva, e si mise ad aspettare qualche pesce.

~

Jabura era così stanco, per il freddo e per le ferite, che persino sognare gli costava fatica. Era scivolato nel buio del sonno quasi senza accorgersene, si era stretto a Rob Lucci e poi il suo corpo si era semplicemente spento.
Ecco perché, di quando era addormentato, Jabura non ricordava assolutamente niente. Si era svegliato con una sensazione di calore e tranquillità, ma aveva attribuito il tutto allo stare al caldo, abbracciato e protetto da un’altra persona. Per contro, però, quell’ “altra persona” era Rob Lucci, e questo irritava il Lupo e gli dava l’impressione di avere un mazzo di ortiche nello stomaco.
Quindi era arrabbiato con sé stesso per la debolezza della notte, e assieme sapeva di non aver potuto agire altrimenti.
Quella mattina continuava a osservare Lucci di sottecchi, senza farsene accorgere, e appena intuiva che l’uomo stava per voltarsi e intercettare il suo sguardo, si girava dall’altra parte. Sarebbe uscito a vedere cosa stava combinando quel muccone di Blueno per la colazione, se solo Califa non si fosse raddrizzata gli occhiali sul naso e avesse decretato: «Bene, ricordatevi di cambiarvi le medicazioni.»
Jabura e Lucci si guardarono a vicenda. Beh, che pretendevano, che lei facesse da infermiera? Già per la giornata precedente, in piena emergenza, era stato strano aiutarsi, ma ora che l’urgenza era terminata, se non c’erano particolari problemi, ognuno doveva pensare soltanto a sé stesso.

E poi Fukuro era un disastro, faceva annodare le bende e si sporcava le mani subito dopo averle lavate; Kaku aveva fatto uno degli ultimi turni di guardia, quindi adesso stava meritatamente dormendo; Blueno era in giro a procurarsi qualcosa per fare colazione, era un compito sacro e nessuno avrebbe mai e poi mai interferito; Califa toccare due uomini quasi nudi? Li avrebbe accusati di molestia per i dieci anni a venire; Kumadori se la poteva cavare, come infermiere, ma faceva troppo chiasso per i gusti dei due, e poi ehi, Jabura e Lucci erano due perfettamente in grado di badare a loro stessi!
«Lavatevi le mani e usate questi.» disse la donna depositando davanti ai due agenti feriti un bel secchio d’acqua preso da Kumadori alla fontana e una busta di plastica bianca piena di scatolini. «E se avete problemi chiedete a Kumadori. Io devo assolutamente andare in centro città a controllare che nessuno ci stia cercando anche se, con la Regina di Primavera che stritola i palazzi, le priorità della Marina locale sono altre.»
“E mica solo i palazzi”, pensò Jabura passandosi una mano al cavallo dei pantaloni. Poi nella sua mente associò il proprio attrezzo a un condominio a dieci piani e ghignò tutto soddisfatto.
Rincuorato, assieme a Lucci cominciò a ispezionare cosa conteneva la busta di plastica: era il sacchetto che gli infermieri e i dottori dell’ospedale avevano consegnato alla donna per prendersi cura dei due agenti, che naturalmente avevano una fibra eccezionale, però senza le meraviglie della medicina moderna avrebbero rischiato di crepare per qualche banale infezione dovuta alle ferite.

Per quanto lo Shigan di Rob Lucci fosse preciso, infatti, anche per lui era difficile uccidere i microbi con un colpo solo.
Lasciarono la busta dei medicinali e delle garze tra i loro materassi, e ognuno se ne serviva.

Jabura cercava il più possibile di concentrarsi su se stesso, isolando dalla mente l’immagine di Lucci stretto al suo corpo e cercando di non badare al minuscolo vento che sollevava Hattori quando, immaginava, spiccava dei voletti per planare di qua e di là del suo fido padrone.

Maledizione, pensò il Lupo, cercando di fare l’appello di tutti lividi e le escoriazioni che si era procurato il giorno prima: era messo peggio ancora di quanto pensasse. Di solito, quando tornava da una missione, erano i medici militari a fare tutte quelle operazioni. Di solito, aggiunse mentalmente, non tornava mai da una missione in quelle condizioni pietose.
Si sfilò piano piano i pantaloni e cominciò il difficile percorso dalle gambe: era da un po’ che non si medicava le ferite da solo, e gli parve saggio non cominciare da organi vitali e giù di lì.
Era inutile spennellare i graffietti e i lividi, e si concentrò direttamente laddove c’erano invece dei punti. Tolse le fasce ormai sporche dalla gamba sinistra: sopra il ginocchio c’era un bel ricordino che gli avevano lasciato i controsoffitti (in realtà non avrebbe potuto giurarlo: non si ricordava esattamente cosa lo avesse ferito e dove… era stata una giornata mooolto lunga). Guardò il Picasso che formava il sangue rappreso e i punti dati col filo nero, si mise di impegno per sopportare il bruciore, e cominciò a spennellare la soluzione salina con una garzina pulita.

Chiuse la benda con un rudimentale nodo (magari avrebbe chiesto a Califa di trovare una chiusura più aggraziata, quando sarebbe rientrata), e decise di passare al resto. C’erano le ferite al dorso, molto più profonde, e quelle che gli avevano bloccato tutta la spalla destra in una fasciatura complessa. Il braccio sinistro era quasi del tutto fuori uso, e l’addome era completamente sfregiato per il…

Oh.

E come doveva sfilarsela, la felpa?

Jabura si fermò, interdetto. Non ricordava neppure chi gliel’avesse messa, la felpa. Forse non era cosciente. Forse era stato Kumadori. Ma poi, di chi diavolo era quella felpa?, pensò guardandosi addosso. Di Kumadori? Di Blueno? Era abbastanza grande.
Ma il punto era un altro: non riusciva a togliersela. Non riusciva a fare leva sugli addominali, tanto che era seduto e appoggiato contro il muro con la spalla sinistra; la spalla destra era fasciata assieme al petto, e non riusciva a muoverla senza vedere tutta la Via Lattea; come doveva fare? Aspettare Califa?

Kaku dormiva, e non se la sentiva di svegliarlo.

Nel dormitorio non c’era rimasto nessun altro, tutti fuori a sorvegliare la situazione, probabilmente.

Non poteva chiedere aiuto a Rob Lucci.
Non dopo quello che era successo nottetempo.

Jabura, molto molto in fondo nel suo cuore di lupo, era quasi spaventato da quello che era successo. Con Lucci, di notte, abbracciato. E, maledizione, gli era piac-

NO! NON GLI ERA PIACIUTO UN CAZZO! FACEVA SCHIFO!

Gli era piaciuto non morire di freddo, esattamente.

A nessuno piaceva morire di freddo, no?

Quindi era normale che gli fosse piaciuto avere di che scaldarsi.
Scosse la testa e si strofinò gli occhi con una mano. Cazzo, voleva qualcosa di forte. Qualcosa che gli per bruciargli la gola e avvolgergli il cervello nella nebbia calda.
Osservò il compare nel letto accanto al suo, concentrato e con Hattori che tentava di aiutarlo: gli passava i capi della benda tenendoli con il becco, ma era troppo piccolo, e ogni volta che zampettava rischiava di rovesciare la bottiglia di disinfettante.
«Ehi.» mormorò arrogante, sollevando il mento in direzione di Lucci. «Passami quel rotolo di benda, te la metto io. Se continui così, facciamo notte. Serve anche a me.»

~

Dopo tanti tentativi, Blueno finalmente era riuscito a tirare su almeno quattro pesci decenti, abbastanza grandi da soddisfare gli stomaci di tutti i suoi compari. Non aveva molto a disposizione, però decise di usare, per cucinarli, un oggetto che aveva ritrovato durante le sue pellegrinazioni nella chiesa.
Entrò in quella che doveva essere stata una cucina, anche se sulle prime non l’aveva capito perché non c’erano lavelli, fornelli e apparecchiature moderne: c’erano solo un forno a legna, un acquaio che ovviamente non funzionava più, e un grande tavolo in muratura al centro della stanza, esattamente in corrispondenza di un grande foro sul soffitto; sotto al ripiano del tavolo c’era un vano dove erano stati accesi parecchi fuochi, e la cenere era ancora lì, e quindi il foro doveva essere una cappa per il fumo.
Ma come si utilizzava? Bisognava cuocere sul ripiano del tavolo? E poi c’era un oggetto che non riusciva a spiegarsi: una sorta di campana di pietra, larga mezzo metro, sporca di vecchi carboni e con un anello di ferro a metà altezza che si poteva regolare: più stretto, rimaneva sulla sommità della campana. Più largo, scendeva fino ai suoi piedi. Sembrava un attrezzo per cuocere.
Blueno rimase lì, con i pesci mezzi vivi nel secchio, cercando una soluzione a quell’enigma.

~

«Ma allora anche il grande e imbattibile Rob Lucci ha le sue ferite di guerra, uh?» ridacchiò Jabura guardando il dorso del collega. Passava le garze imbevute di soluzione salina sui punti di sutura e cercava di non pensare a quanto gli sarebbe piaciuto saltargli addosso e farlo a pezzi.

Lo stuzzicava, cercava una rissa che entrambi sapevano benissimo di dover evitare, viste le condizioni in cui erano. «Te la sei fatta apposta, così, fissato con Governo che non sei altro?» disse, intendendo la forma della cicatrice che era precisa e identica allo stemma del Governo Mondiale. Le spalle di Rob Lucci erano muscolose e immense (ma meno larghe delle sue, beninteso), e quello sfregio sembrava una bandiera che abbracciava il corpo dell’agente.

«Non te l’hanno mai detto che esistono delle cose chiamate tatuaggi? Fanno meno male di farsi sparare addosso, te l’assicuro.» sghignazzò buttando la garza ormai sporca e prendendone una nuova.
In realtà pensava che Rob Lucci era stato un pazzo. Come diavolo aveva fatto, a farsi una ferita del genere? Con il rischio poi, visto il posto, di rimanere paralizzato per tutta la vita. Jabura sfiorò con le dita, senza farsene accorgere, la pelle martoriata che era ricresciuta dopo l’incidente, pallida e irregolare. Era una vecchia cicatrice.

Pensò alle sue. Era un maestro del Tekkai, non ne aveva molte. Quelle poche, erano molto vecchie. La peggiore, forse, era quella che gli sfigurava il volto. Lì aveva rischiato grosso.

«Quando te la sei fatta?» chiese all’improvviso, prendendo il rotolo di cerotto per fissare le bende attorno al torace di Rob Lucci.
 
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view post Posted on 3/11/2019, 18:08
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Rob Lucci

Medicarsi le ferite era certamente uno dei compiti meno graditi a Lucci, nonostante potesse vantare una certa esperienza in materia.
Aveva imparato nella lontana isola di Guanhao, quando era solo una recluta del Governo, prima di riuscire a compiere un Kami-e abbastanza rapido e molto prima di eseguire un Tekkai completo. Una volta promosso ad agente del CP9 gli era capitato sporadicamente di avere bisogno di interventi medici importanti (e quasi sempre, le ferite che riportava in missione potevano attendere il suo rientro a Enies Lobby); ma nel caso in cui si fosse dimenticato i rudimenti del primo soccorso, beh, ci avevano pensato gli anni trascorsi sotto copertura a Water Seven, e in particolare il "CORSO OBBLIGATORIO PER LA SICUREZZA NEI CANTIERI NAVALI" vagliato dal Sindaco in persona, a rinfrescargli la memoria. Iceburg, che al tempo era suo datore di lavoro, aveva stabilito che tutti i capomastri della Galley-La Company seguissero un corso di duecentoquaranta ore divise tra teoria e pratica per prevenire e gestire gli incidenti sul lavoro. Tradotto, quasi tre mesi a parlare dei possibili pericoli derivanti dall'uso degli attrezzi più comuni in cantiere e dei mille mila fantastici modi di contrarre il tetano semplicemente mettendo un piede sulle imbarcazioni dei pirati (l'espressione attonita di Kaku, in quei giorni, era impossibile da dimenticare): una noia assoluta. Però –ironia della sorte– era grazie a quel corso che Kaku aveva affinato la sua capacità di leggere il battito cardiaco, ed era sempre grazie a quello che ora Lucci non mancava di disinfettare con cura le ferite.
Il lavoro pareva infinito. Sul suo corpo malconcio i centimetri di pelle libera dalle fasciature potevano misurarsi con le dita e a poco serviva il supporto di Hattori che lo aiutava nelle medicazioni, ora tirando via le vecchie bende, ora avvicinandogli garze e cotone imbevuto di disinfettante.

C’era un solo aspetto positivo in tutta quella penosa operazione: gli teneva la mente troppo occupata per pensare alla notte appena trascorsa nel letto del rivale... e non solo.
Lucci aveva provato a spegnere –nel senso letterale del termine– gli echi del sogno erotico sotto il getto freddo della fontanella vicino alla Cappella degli Accovati, ma il sollievo era stato irrisorio. Per quanto si sforzasse di non darvi peso, per quanto cercasse di classificare il sogno come un dimenticabile delirio notturno scaturito dalla stanchezza e dall'episodio scabroso con la Regina di Primavera, era chiaro che non sarebbe riuscito ad archiviare la questione tanto in fretta.
L’aveva capito appena aveva rimesso piede alla Cappella e aveva rivisto Jabura. Guardarlo, di colpo, era stato strano, imbarazzante, perfino azzardato; come se una parte di lui si aspettasse di scoperchiare un insidioso vaso di Pandora semplicemente guardandolo negli occhi.
Ridicolo.
Ad ogni modo, Lucci aveva preferito evitare il suo sguardo per tutta la mattina, non notando –o fingendo di non notare– che Jabura stava facendo lo stesso con lui.
Tanto meglio così. Evitare di averci a che fare sembrava l'opzione migliore. Ignorarlo era sempre stata l'opzione migliore, da quando erano bambini e bastava davvero un'inezia per accendere una rissa.
Peccato che Jabura non si rendesse facilmente una persona ignorabile.

CITAZIONE
«Ehi.» mormorò arrogante, sollevando il mento in direzione di Lucci. «Passami quel rotolo di benda, te la metto io. Se continui così, facciamo notte. Serve anche a me.»

Per l'appunto.
Lucci gli rivolse un'occhiata vagamente infastidita. «Perché, hai impegni?»
Doveva ammettere, però, che era sciocco complicarsi il lavoro inutilmente. Le suture tiravano già abbastanza senza che lui le mettesse alla prova con qualche manovra da contorsionista.
Riluttante, prese il rotolo di benda, lo lanciò al Lupo e si spostò vicino a lui, sul bordo del suo materasso logoro, dandogli la schiena.
La naturalezza di quel gesto per un attimo lo sorprese. Fino a non troppo tempo prima, non si sarebbe mai sognato di abbassare la guardia così con Jabura. (Per forza: non sapevi mai quale tiro mancino potesse giocarti quel bastardo semplicemente perché era annoiato o in vena di menare le mani!)
Compreso che il suo aiuto non era più necessario, anche Hattori decise di prendersi una pausa e gli si appollaiò in grembo in cerca di calore.

CITAZIONE
«Ma allora anche il grande e imbattibile Rob Lucci ha le sue ferite di guerra, uh?» ridacchiò Jabura guardando il dorso del collega. Passava le garze imbevute di soluzione salina sui punti di sutura e cercava di non pensare a quanto gli sarebbe piaciuto saltargli addosso e farlo a pezzi.

Lo stuzzicava, cercava una rissa che entrambi sapevano benissimo di dover evitare, viste le condizioni in cui erano. «Te la sei fatta apposta, così, fissato con Governo che non sei altro?»

Mentre lasciava una carezza distratta sulle piume di Hattori, Lucci sogghignò, riconoscendo l'antica eccitazione che gli strisciava sottopelle ogni volta che Jabura lo provocava.
Il bruciore delle ferite disinfettate gli suggerì, purtroppo ragionevolmente, di non replicare come avrebbe voluto.

CITAZIONE
«Non te l’hanno mai detto che esistono delle cose chiamate tatuaggi? Fanno meno male di farsi sparare addosso, te l’assicuro.»

Gli venne da pensare a certi vistosi tatuaggi che aveva visto stampati addosso a pirati e marinai poco raccomandabili. A prescindere dal soggetto o dalla bandiera di appartenenza, li aveva sempre trovati di dubbio gusto se non decisamente pacchiani.
«Esiste anche una cosa chiamata decoro personale...» fece presente al Lupo, salvo ricordarsi che stava parlando con uno che si presentava alle riunioni ufficiali del Cipher Pol a petto nudo, la cravatta annodata alla meno peggio e il tatuaggio sfacciatamente in mostra «Qualcosa che tu ovviamente non conosci.»

CITAZIONE
«Quando te la sei fatta?»

Le dita che fino a quel momento accarezzavano il collo del colombo s'arrestarono.
Hattori alzò lo sguardo su Lucci. Notò che anche lui lo stava guardando ma senza reale intenzione, assorto in chissà quali altri pensieri.
«Dieci... quindici anni fa.» Rispose meccanicamente Lucci.
Non dovette rifletterci molto. Ricordava bene quella notte; le grida dei soldati presi in ostaggio; la montagna di cadaveri; gli scoppi assordanti dei cannoni; la puzza della pelle bruciata.
Una delle sue prime missioni in solitaria che lo aveva consacrato alla Giustizia Assoluta. Un successo, nonostante le ferite considerevoli alla schiena, per cui Lucci aveva sempre provato un certo compiacimento.
Eppure, adesso, insieme con quel ricordo arrivò un'ondata improvvisa di fastidio, come se il tempo gli avesse dato la capacità di guardare i fatti da una nuova prospettiva e da quella lui riuscisse a vedere il ghigno di tutti e cinquecento i soldati morti che ridevano e gli davano dell'ipocrita.
I deboli non meritano di vivere.
Non erano state queste le sue esatte parole?
«Troppo tempo fa per ricordarlo. Hai finito?»
Senza aspettare conferma da Jabura, Lucci si rialzò, costringendo Hattori a volare via in fretta.
Il piccione atterrò di nuovo sul materasso, tubò qualcosa verso il padrone e si rivolse al Lupo con un misto di perplessità e di accusa negli occhietti scuri. Possibile che riuscisse sempre a farlo arrabbiare?

***

Lo spettacolo che si parò dinnanzi a Califa quando raggiunse il centro storico di San Popula era forse meno desolante di ciò che aveva visto ad Enies Lobby dopo il Buster Call, ma non certo meno disastroso.
Molti edifici erano danneggiati, crollati in parte o fino alle fondamenta, le strade squassate e lacerate in più punti, i tombini scoperchiati gorgoglianti di vegetazione selvatica: della graziosa e ordinata cittadina conosciuta poche settimane prima, San Popula aveva solo un vago e confuso ricordo.
La donna avanzò con cautela verso la piazza costeggiata da botteghe e negozi dalle facciate cadenti. Qui e lì, tra le crepe scavate nei muri, tentacoli spessi come funi di una nave si affacciavano pigramente per esporsi ai raggi del sole. La Regina di Primavera si stiracchiava sulle macerie di una città devastata dal suo risveglio... ma non per questo sconfitta.
Con un pizzico di sorpresa l'ex agente del CP9 notò che la piazza, a dispetto di tutto, brulicava di vita: operai edili facevano una prima stima dei danni e delle riparazioni da effettuare; volontari prestavano soccorso agli sfollati; negozianti mettevano in salvo la merce integra; residenti rientravano nelle case a recuperare gli effetti personali. Quasi tutti si mostravano provati e stanchi, ma Califa, che aveva vissuto quattro volte l'alba dell'Acqua Laguna di Water Seven, riconobbe nei loro volti i sorrisi inconfondibili di una comunità resiliente, abituata a fare i conti con una simile emergenza all'inizio di ogni primavera.
Di lì a poco avrebbe scoperto che San Popula, in effetti, conviveva da secoli con le straordinarie fioriture della Regina, avendo fagocitato un frutto del diavolo con le proprietà di una pianta carnivora. La scoperta meno interessante, ma senza dubbio di estrema importanza per lei e per il suo gruppo, era che con la città in quello stato di lavoro ce n'era in abbondanza per tutti.
Com'era facile immaginare, gli abitanti non potevano permettersi di pagare in denaro, ma erano ben disposti a barattare merci e beni di prima necessità –precisamente ciò che occorreva loro– in cambio di manovalanza.
Si dava il caso che lei avesse quattro ragazzoni da ottocento doriki in su da poter impiegare in lavori di fatica (magari avrebbe riservato le mansioni più leggere a Kaku, che non si era ancora rimesso del tutto dopo lo scontro coi Pirati di Cappello di Paglia), più lei stessa. Certo, una ragazza che sollevava pesanti calcinacci o tranciava tentacoli senza pietà avrebbe dato non poco nell'occhio, ma per fortuna Califa poteva sfruttare i poteri del Bubble Bubble per lavorare, e anche se la prospettiva di finire a pulire tutti i palazzi di San Popula non la esaltava, era sempre meglio che restare coinvolta nelle opere di primo soccorso. Non facevano per lei; era una spia addestrata a uccidere, non un'infermiera.
Il vero problema restava la Marina. Nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile con i marines sulle loro tracce...

Califa frugò in una tasca del soprabito –che poi era il tangzhuang di Jabura– e ne estrasse un minuscolo accendino e una sigaretta. Il fumo era l'unico sfizio che si era concessa da quando erano arrivati a San Popula, due settimane prima, e avevano cominciato a lavorare come improbabili artisti di strada per le spese mediche di Lucci. Nonostante fosse stata molto parsimoniosa (il resto del pacchetto di sigarette era ancora mezzo pieno, nascosto in uno dei confessionali della Cappella) e non credesse davvero che i suoi compagni di viaggio le avrebbero recriminato nulla, preferiva non essere vista mentre fumava. Una donna doveva pur avere i suoi segreti, no?
Accese la sigaretta e inspirò a fondo, pensierosa.
Aveva visto pochi marines in giro –tutti impegnati a prestare soccorso ai cittadini, come aveva immaginato– e questo faceva ben sperare. Ma proprio per la situazione critica in cui verteva San Popula, non era logico aspettarsi che la Marina inviasse altri uomini?
Più soldati per le strade significava più possibilità di essere visti e riconosciuti. E meno opportunità di lavorare in tranquillità.
Espirò, contemplò il nastro di fumo bianco disperdersi nell'aria e prese un'altra boccata.
E poi c'era un'altra questione: Jabura e Lucci.
Stavano chiaramente troppo male per seguirli in città, ma non così male per badare a loro stessi. Se la presenza della Marina non si fosse fatta allarmante, forse avrebbero potuto lasciarli da soli alla Cappella durante il giorno, così da lavorare (e guadagnare) in cinque.
Ma... era saggio? Potevano lasciare quei due testoni da soli senza rischiare che si scannassero a vicenda? Diamine, avevano avuto la faccia tosta di ringhiarsi contro anche mentre Lucci era sedato, in ospedale!
Un problema per volta, s'impose Califa, allontanando la sigaretta dalle labbra.
Stava quasi per esaurire la sua dose di nicotina giornaliera quando captò stralci di una conversazione tra alcuni uomini del posto. Uno di loro agitava un quotidiano tra le mani e commentava animatamente le notizie.

«Senti qua che roba! Quindi non mandano nessuno?!»
«Forse via mare, ma non arriveranno prima di qualche giorno...»
«Assurdo, in treno impiegherebbero meno di un'ora!»
«Già, ma la stazione è distrutta e anche se non lo fosse, il Puffing Tom è fuori uso.»
«Ci mancava solo la brutta faccenda del Buster Call... maledetti pirati!»
Califa attese che il gruppetto si allontanasse e, attenta a non farsi notare, andò a recuperare il giornale dal cestino dei rifiuti mezzo sgangherato.
Il suo viso si illuminò mentre leggeva la notizia che occupava tutta la prima pagina:

"EMERGENZA SAN POPULA: SI SVEGLIA LA REGINA DI PRIMAVERA, LA CITTÀ RESTA ISOLATA.
I collegamenti via treno marino risultano ancora interrotti dopo il Buster Call che ha distrutto Enies Lobby. Ritardano gli aiuti umanitari, ma il Sindaco assicura: Situazione sotto controllo..."


***

Alla fine, Hattori aveva compreso che non era colpa di Jabura se Lucci si era incupito. Così, un po' per scusarsi dell'equivoco, un po' per ricambiare il favore fatto all'amico, aveva deciso di aiutare il Lupo nelle medicazioni.
Purtroppo non si era rivelato tanto semplice: Jabura non era per nulla collaborativo, anzi, rifiutava ogni forma di aiuto come un animale selvatico ferito, ma da solo non riusciva nemmeno a togliersi i vestiti. Hattori capiva che la spalla gli faceva troppo male, anche se il suo volto non tradiva alcun sentore di dolore.
Gli svolazzò intorno due volte, si posò dietro di lui e contemplò la pesante felpa che indossava. Non bastava solo tirarla su, andava tolta per forza.
Determinatissimo, artigliò l'orlo dell'indumento con le zampette e spiccò il volo con un energico battito di ali. Ma non ottenne esattamente il risultato sperato.

«Che diavolo fai? Kaku dorme.» Attirato dallo schiamazzo, Lucci si voltò verso il rivale.
Gli bastò un'occhiata per rendersi conto che stavolta Jabura non c'entrava, che era stato Hattori, per qualche strana ragione, a infastidirlo.
Si accigliò e il colombo tubò mestamente, facendosi piccolo come un pulcino contro il materasso. Poi Lucci lo vide avvicinarsi di nuovo a Jabura: col becco gli pizzicò la felpa, la strattonò, arruffò le piume, tubò di nuovo rivolto a lui.
Ah... ecco cos'era.
«Lascia, ci penso io.»
L'idiota aveva una spalla fuori uso ma, esattamente come la notte scorsa, era troppo testardo e orgoglioso per aprire bocca e ammettere che non riusciva a svestirsi.
Lucci tornò da Jabura, stavolta sedendogli di fronte. Non chiese se avesse bisogno di aiuto –era chiaro che ne aveva, e lui, d'altra parte, sapeva di doverglielo– ma prima di allungare le mani sulla sua felpa lo ammonì: «Fai poche storie, altrimenti facciamo notte
E comunque non è il caso di scandalizzarsi, ieri ho fatto cose peggiori, pensò, e si odiò per averlo pensato, perché adesso ricominciava a sentirsi a disagio.
Prese a sfilare la felpa di Jabura con calma, nonostante la voglia di finire in fretta, per evitare che sfregasse malamente contro le ferite.
L'indumento rivelò una costellazione di ematomi interrotti dalle fasciature che coprivano gran parte del torace del Lupo. Lucci ricordava di aver visto i lividi anche il giorno prima, all'ospedale, ma solo adesso alla luce del sole ne carpiva tutta la gamma di colori bluastri, immaginando la violenza dei colpi che li avevano prodotti.
Ma c'era dell'altro.
C'era una curiosità spaventosa, destabilizzante, e un'innegabile attrazione, nel modo in cui il suo sguardo indugiava sul corpo di Jabura mentre lo spogliava.
...Naturalmente, era solo colpito che qualcuno fosse riuscito a spezzare la difesa di uno specialista del Tekkai. Tutto qui.
E allora il sogno?
Lucci lottò per non ripensarci, anzi, per non pensare affatto.
Riuscì a sfilare la manica dal braccio sinistro del Lupo –la felpa era abbastanza larga e non fu difficile– ma la spalla destra era bloccata da un'ampia fasciatura che avvolgeva anche il petto.
Si avvicinò di più per poter insinuare una mano sotto la felpa e gli tenne ferma la spalla, sentendo i muscoli di Jabura solidi come granito sotto le dita. Poi, con la mano libera, cominciò a tirare giù anche l'altra manica.
Fu allora che da qualche parte al piano superiore della Cappella una voce proruppe: «YOOOOYOI! IL CIELO TI ABBIA IN GLORIA, AMICO MIO!!»
Un'altra voce indistinta (Blueno?) che rimproverava Kumadori. Un solenne «Seppuku!» seguito da un disinvolto «Tekkai». Altri commenti indecifrabili di Blueno.
Un piccolo fruscio di coperte smosse nei dintorni: Kaku che mormorava qualcosa nel sonno, si rigirava nel letto e continuava placidamente a dormire.

Lucci tornò a guardare Jabura, interdetto. Che stavano combinando, quegli idioti?
Ma subito la questione perse d'importanza.
Si rese conto che aveva ancora la mano infilata sotto la felpa dell'altro e gli stava così vicino da riuscire a sentire perfettamente il calore del suo respiro sul collo. Da quella minima distanza, Lucci notava ora particolari del volto di Jabura che non aveva mai notato prima: i solchi lasciati dal tempo e accentuati dalla stanchezza, le sfumature nocciola dei suoi occhi, i contorni definiti dei baffi che gli accarezzavano gli angoli delle labbra...
Abbassò lo sguardo, deglutendo nervosamente.
La felpa.
Doveva togliergli la stramaledetta felpa.
Si rimise all'opera mentre Hattori li contemplava entrambi con curiosità, inclinando la testolina da un lato all'altro.
 
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view post Posted on 21/12/2019, 01:41
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2rr1bft ~ Jabura

«E adesso che vuoi?» sibilò Jabura ad Hattori.

Quel maledetto piccione si era arrampicato sul suo letto e non gli staccava gli occhi di dosso. Che accidenti voleva? Dargli i tormenti?

«Lasciami stare.» disse a bassa voce, seccato.

Hattori e Lucci, per lui, erano sempre stati un binomio inscindibile, però non se la prendeva mai con il piccione. Ma se era Hattori che, invece di svolazzare attorno al suo padrone come al solito, si metteva di buona lena a saltellargli attorno, gli saltavano i nervi!

Jabura decise di ignorarlo e cercò di sfilarsi la felpa. Chiuse gli occhi, serissimo, per isolarsi dal mondo circostante e non far trapelare nulla. Come diavolo gli era stata infilata? Probabilmente era sedato, o così distrutto da non sentire nemmeno il dolore. Adesso però bisognava cambiare tutte le fasce del petto e delle spalle, non poteva tenerla addosso.
Toglierla dall’alto, sollevando le braccia, era fuori discussione. Cercò di sfilare il braccio destro, ma la spalla era fasciata in modo che non potesse fare movimenti troppo larghi e non ci fu verso. Sentiva le ossa arroventarsi a ogni movimento e la pelle tirare e strapparsi a ogni respiro. E la testa, la maledetta testa che strillava e gli chiedeva di rimettersi steso. Peccato che ormai non ce la facesse nemmeno a fare quello, avrebbe avuto bisogno di una mano persino per rimettersi sotto le coperte. Erano anni che non ne chiedeva, ma quando Califa sarebbe tornata le avrebbe chiesto un’iniezione di antidolorifico: voleva dormire.

Riaprì gli occhi e ne trovò un paio, neri neri, che lo fissavano: Hattori.

Jabura, ma non lo vedi che sei messo così male che non riesci nemmeno a toglierti la maglia, sembravano dire, un po’ penosi, quegli occhietti. Gli saltò su un ginocchio (quello sano, o perlomeno quello che riusciva a reggere il minuscolo peso di un uccellino) e afferrò con il becco la manica della felpa, tirandola forte.
«Dacci un taglio.» disse Jabura senza prenderlo sul serio. Con una mano sola lo prese da sotto la pancia, sollevandolo, e lo depose di nuovo sul materasso. «Non sono affari tuoi.»

Com’era calda e ruvida quella mano, e come affondò nelle piume morbide del petto di Hattori! Ma durò poco: allontanò il piccione e riprese a tentare di sfilare la felpa, stavolta dal braccio sinistro, senza successo.
Allora bisognava provare con le cattive.

CITAZIONE
Determinatissimo, artigliò l'orlo dell'indumento con le zampette e spiccò il volo con un energico battito di ali.

«EHI EHI FERMO CHE STAI FACEN- AH!» Jabura sbraitò e si mosse di scatto, istintivamente, e si piegò su se stesso per il dolore lancinante alla testa e alla spalla destra, quella che si era presa tutto il peso del soffitto per proteggere la testa di Rob Lucci…

CITAZIONE
«Che diavolo fai? Kaku dorme.» Attirato dallo schiamazzo, Lucci si voltò verso il rivale.

«Ti avevo detto di stare fermo.» ruggì basso il Lupo ad Hattori. «Ce la faccio da solo.» gli ripeté togliendoselo dalla schiena e riportandolo avanti, dandogli una spintarella leggera per farlo ritornare da Lucci.
Ci mancava solo di far incazzare quel borioso rompicoglioni. Non aveva proprio voglia di attaccare briga, voleva solo riposare, per una volta in vita sua. Riposare e non pensare alla notte trascorsa, quando si era stretto a quello stronzo come una fottuta donzella in difficoltà.

Bah! Che schifo! Che imbarazzo! Non riusciva nemmeno a guardare Lucci, proprio lui non trovava la faccia tosta per dire, con il solito ghigno: “Hai avuto l’onore di dormire con me! Di solito le donne fanno la fila!”
Per qualche motivo non gli andava di liquidare tutto con una battuta.
CITAZIONE
«Lascia, ci penso io.»

sentì all’improvviso. E Lucci si materializzò all’interno del suo campo visivo, pericolosamente vicino. Ne sentiva l’odore di sangue, di disinfettante, sentiva la sua presenza forte, contrariata e terribilmente eccitante.
Eccitante come il brivido della caccia. Non per nulla, erano cane e gatto. Nemici naturali.
«Che diavolo vuoi?»

CITAZIONE
«Fai poche storie, altrimenti facciamo notte.»

Proprio da Rob Lucci. Lui non chiede il permesso, lui agisce. Con quel modo letale ed elegante, con quello sguardo che ti penetra l’anima come lo Shigan la carne.
Afferrò la sua felpa e a Jabura venne in mente quando, da bambino, si era lanciato giù da uno scivolo d’acqua. Si era intrufolato in un parco giochi per bambini ricchi. Era salito in cima a una scala e ricordava quella sensazione di vuoto prima che lo scivolo lo trascinasse giù, con il cuore a mille e l’attesa dell’impatto con l’azzurro.
Trattenne il fiato proprio come quella volta.
Lucci lo stava spogliando.

Aveva le mani fresche, ma decise e sicure. Era stanco, ma si era ripreso rispetto a quella maledetta mattina a San Popula, quando gli era crollato l’ospedale addosso… Jabura ne fu contento, da qualche parte in fondo al cuore. Sollevava pianissimo l’indumento, facendolo scorrere sulle ferite, curando che non premesse su quelle della schiena nel tentativo di rimanere largo su quelle del petto.
Quasi tremò quando sentì il braccio del rivale infilarsi sotto la stoffa, a contatto con la pelle, per prendere il suo braccio e accompagnarlo verso l’uscita della felpa.

Gli venne duro.

Gli venne duro e gli venne voglia di ribaltare Lucci e sbatterlo contro il muro e scoparlo con violenza. Gli venne voglia di sentirlo combattere tra le sue gambe, e lasciarlo vincere, e lasciarsi mettere sotto. E poi di nuovo tirarsi su e affondare dentro di- NOOOOOOOOOOOO.

CHE DIAVOLO STAVA IMMAGINANDO?

Costernato e terrorizzato, con il cazzo durissimo nascosto male e poco dalla coperta, si rivolse verso Rob Lucci e lo guardò negli occhi. Sentiva il calore delle sue mani sulla pelle, il respiro così vicino al suo, i suoi capelli lunghi e neri che ondeggiavano, sciolti, così vicini da poterli toccare con le dita. Le labbra disegnate, sottili, piegate verso il basso in un’espressione dura e concentrata. Era letale. Era letale anche così, anche stanco, anche mentre lo stava aiutando (aiutando? Sul serio? Rob Lucci?), anche mentre lo fissava così intensamente con quei maledetti occhi di ghiaccio che Jabura si sentì nudo, molto più nudo.

Boccheggiò, aprì la bocca –voleva giustificarsi, voleva dire parolacce, voleva bestemmiare
CITAZIONE
«YOOOOYOI! IL CIELO TI ABBIA IN GLORIA, AMICO MIO!!»

Kumadori! Santo Kumadori!!

~

Gyahahahaha! In imbarazzo per quel coglione di Lucci? Ma andiamo! Jabura si sentiva quasi orgoglioso, di aver protetto di nuovo tutto il gruppo, come un vero lupo di branco! Era lui il leader, era di lui che tutti si fidavano! Poi beh, faceva un po’ freddo quella notte, giusto? Aveva comunque perso sangue, giusto? Aveva comunque una commozione celebrale, giusto? Aveva comunque combattuto contro quel pazzo a Enies Lobby che aveva vinto solo per quel trabocchetto del fuoco, giusto?
E quindi non c’era bisogno di vergognarsi per essere stato nel letto con Rob Lucci. E nemmeno per essere stato aiutato per la questione della felpa!
«Sei sicuro stare bene?» chiese Kaku con cautela, posando una mano sulla spalla di Jabura.
Fukuro, Califa, e persino Lucci, dal suo letto, lo stavano guardando costernati.
«Certo che sto bene!» era saltato l’uomo, evitando gli sguardi di tutti.
«Chapapa… hai cominciato a ridere da solo.» gli fece notare con delicatezza Fukuro.
«Che fesserie vai dicendo?!» si alterò Jabura. In realtà si stava arrabbiando perché sì, in cuor suo sapeva di essere scoppiato a ridere istericamente nel silenzio della camera da letto, quando si era faticosamente alzato in piedi per sgranchirsi un po’ le gambe. Era un momento particolarmente silenzioso e tranquillo, perché quella mattina Kumadori era uscito, quindi la risata era risuonata su tutte le pietre della cappella.
«Vado… vado a fare due passi.» annunciò zoppicando piano fino alla porta, e poi uscendo. Kaku, Califa e Fukuro rimasero ad ascoltare i suoi passi irregolari che si spegnevano nella navata.
«Tra cinque minuti gli vado dietro. Non vorrei che si facesse male da solo.» disse Kaku, perplesso.
Jabura arrancò fino a trovarsi a metà della vecchia navata. Quando fu sicuro che nessuno lo stesse guardando, si appoggiò a una colonna. Era malandata e aveva paura che, appoggiandovisi, venisse giù la colonna, le travi e il soffitto, ma la struttura resse e lui si diede un po’ di tempo per riposarsi prima di riprendere a camminare.
Tracciò una linea con la punta del piede, che spiccò tra la polvere del pavimento. Erano anni che nessuno puliva, e che nessuno entrava in quella chiesa. La luce del giorno filtrava a est, dai finestroni dell’abside; una volta lì sotto doveva esserci l’altare, ma evidentemente a un certo punto qualcuno aveva trovato utile un lastrone di marmo, o un bel tavolo di legno, e tanti saluti all’altare. Le vetrate invece erano quasi intatte: allungate verso l’alto come se qualcuno le stesse risucchiando dal cielo, ritraevano santi, cavalieri, angeli, tutti fatti di tasselli di vetro verdi e azzurri.
Gli occhi di Lucci erano verdi o azz-NOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO.
Che diavolo andava a pensare?? Jabura ringhiò e riprese a camminare. Percorse rabbiosamente la navata finché non si ritrovò dalla parte opposta della chiesa, sotto delle nicchie. Avesse studiato storia dell’arte, invece di storia dell’assassinio, avrebbe saputo che si trovava in una delle navate minori, e che, se avesse continuato ad andare verso l’altare, si sarebbe ritrovato nel transetto, e da lì forse avrebbe trovato una porticina che l’avrebbe condotto ad altri locali dietro alla chiesa.
Ma Jabura non sapeva niente di niente di questi argomenti da civile, a lui piaceva menar le mani, e se era lì era perché, per distrarsi, aveva cominciato ad annusare l’aria e a seguire un odore invitante. Del resto, era già passato mezzogiorno.
Camminò a caso (ma noi diremo che sta zoppicando in una navata laterale, incamminandosi verso la zona dell’altare ma tenendosi sulla destra) seguendo quella scia di profumo e seguendo il filo dei suoi pensieri.
La notte con Rob Lucci.
Oh ma andiamo! Gli era piaciuto perché stava letteralmente morendo di freddo.
Non aveva avuto un’erezione durante la notte, vero?? Pensò allarmato. Gli succedeva, oh se gli succedeva. Ne sognava di cotte e di crude, specialmente durante le missioni in cui… beh, in cui gli capitava di stare per tanti tanti mesi da solo. A volte non ci si poteva fidare nemmeno delle donne nei bordelli, questo Jabura lo sapeva bene.
Sarebbe stato decisamente imbarazzante se –Jabura ghignò– a un certo punto Lucci si fosse trovato una spada piantata nel fianco!
Un brivido lo scosse, si fermò di nuovo e si appoggiò al davanzale di un altarino laterale. Sarebbe stato imbarazzante, o sarebbe stato eccitante?
No.
Non sarebbe stato eccitante, maledizione, pensò deciso ricominciando a camminare.
La piccola navata finì, e Jabura si ritrovò con la zona dell’altare alla sua sinistra, e a destra c’era uno spiazzo e poi una porticina. Avanzò ancora, per sfuggire ai suoi pensieri.
Aveva sempre amato le donne, vero?
Marykka, Friburga, Croisette, e altre decine. Tette, tette, tette. No, Croisette era un po’ scarsa. Ma sempre donna era! E che donna!
L’onestà intellettuale era a farsi un giro fuori, altrimenti avrebbe contestato quella “altre decine”, ma questo non è utile ai fini della storia.
E Gatherine, pensò d’improvviso Jabura. Quella cessa che aveva preferito Lucci a lui!
Beh ma se fosse stato lui a farsi Luc- NOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO.
No.
Basta.
«Che ci fai qui?» chiese una voce calma e profonda.
Jabura alzò la testa e vide Blueno.
Quanto aveva camminato?
Dov’era?
Il profumo era forte, era arrivato alla fonte. Nella stanza faceva un bel caldo e Blueno stava cucinando.
«Ho sentito odore di pesce. Che stai facendo?»
Blueno fece quello che i cronisti più coraggiosi avrebbero definito “sorriso”. «Un piatto tipico della tradizione di Water Seven.» spiegò.
Condusse Jabura al centro dello stanzone. Era una cucina antica, con un grande camino sul fondo e una cappa enorme al centro del soffitto, così grande che né Jabura né Blueno ne avevano mai vista una simile. Al centro della stanza c’era una sorta di grande tavolo di pietra, un piano cottura enorme, inamovibile perché forse costruito come tutt’uno col pavimento, oppure semplicemente troppo pesante per essere portato via.
Sotto il tavolo c’era una grandissima brace, che l’ex oste ravvivò mentre Jabura, curioso, osservava l’intera struttura. Era antica, non c'erano dubbi, forse più della stessa chiesa. C'erano ben poche suppellettili in giro: la stanza doveva essere stata depredata, oppure il prete, andando via, aveva portato tutto con sé. Una cucina vuota era triste, anche se Blueno era riuscito a procurarsi le cose essenziali per far da mangiare. Persino, notò Jabura con occhio allenato, una bottiglia. Non riuscì a capire cosa fosse, dall'etichetta, ma era sicuro che si trattasse di un onesto superalcolico, che sembrava salutarlo da un cestino nell'angolo.
Non riusciva a capire da dove arrivasse l’odore: il camino sul fondo era spento, le uniche braci erano quelle sotto al piano cottura, il quale però era vuoto salvo che per una sorta di coperchio di pietra a forma di campana, coperta a sua volta da braci.
«Questa cosa qui l’ho vista fare solo una volta.» muggì Blueno. «Guarda.»
Prese un canovaccio per non scottarsi e, afferrata la campana per un grosso anello che aveva in cima, la sollevò. Sotto stava cuocendo un grosso e succulento pesce con le patate!
Quella campana era una sorta di forno, capì Jabura! Il pesce cuoceva grazie alle braci che c’erano sotto al piano di pietra, e poi il calore veniva trattenuto dalla campana in modo che non si disperdesse. Non solo: il calore veniva anche dalla carbonella che stava sopra la campana, in precario equilibrio, retta da grossi anelli di metallo che impedivano che scivolasse giù.
Ogni tanto qualche brace cadeva, e Blueno con pazienza la rimetteva.
«Cuoce lento.» disse l’uomo. «Ma tra mezz’ora possiamo mangiare.»




Tanti auguuuuri a te ♥ tanti auguuuuri a te ♥ tanti giorni felici ~ tanti auguri per teee ♥ scusa il ritardo, ma volevo farti gli auguri in qualche modo... Cp9!


Edited by Yellow Canadair - 21/12/2019, 19:42
 
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44 replies since 28/12/2016, 21:27   1053 views
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